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    PONTI, NON MURI: FRANCESCO PROPONE, MOLTI CATTOLICI DISPONGONO

     

    PONTI, NON MURI: FRANCESCO PROPONE, MOLTI CATTOLICI DISPONGONO – DI GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 11 ottobre 2016

     

    Dati e riflessioni sul comportamento di tanti cattolici quando, come cittadini, si devono esprimere in materia di immigrazione e di riconciliazione. Dalla Francia al Canton Ticino, dall’Italia all’Ungheria e infine alla Colombia larghe fasce cattoliche votano diversamente da quanto predica Francesco.

     

    In un pacato e interessante editoriale apparso su Avvenire l’8 ottobre (dunque dopo il voto in Ungheria e in Colombia) Marco Impagliazzo - presidente di una Comunità che ha nel dna la vocazione alla diplomazia negoziale, quella di Sant’Egidio – evidenzia che oggi è il “tempo del noi”, citando in chiusura anche papa Francesco. Che il 6 giugno 2015, rispondendo a Sarajevo ad alcune domande di giovani, disse tra l’altro: “Voi non volete essere nemici l’uno dell’altro. Volete camminare insieme (...) E questo è grande! (…) Non siamo loro ed io, siamo noi. Noi vogliamo essere “noi”, per non distruggere la patria, per non distruggere il Paese. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico… ma siamo  noi”. Questo è fare la pace! Voi avete una vocazione grande. Una vocazione grande: mai costruire muri, soltanto ponti”.  

    Ponti, non muri: un’espressione che in papa Francesco è – come noto – ricorrente. Ad esempio: “Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore: servono ponti, non muri” (Angelus dell’8 novembre 2014); “La pace costruisce ponti, l’odio è il costruttore dei muri. Tu devi scegliere nella vita: o faccio ponti o faccio muri” (28 luglio 2016, Cracovia, ai giovani italiani). Ma soprattutto: “ Chi pensa solo a fare muri e non ponti, non è cristiano. Questo non è nel Vangelo. Votarlo o non votarlo? Soltanto dico che, se ha parlato così, quest’uomo non è cristiano” (17 febbraio 2016, conferenza-stampa in volo dal Messico, riferendosi a dichiarazioni di Donald Trump).

    Chiediamoci però: come si comportano tanti cattolici quando, da cittadini, devono scegliere tra chi in qualche modo propone i ‘muri’ o non riesce a perdonare chi si è reso autore di crimini e chi invece intende ineludibile costruire ponti a oltranza o la riconciliazione a ogni costo?

    Evochiamo allora le situazioni createsi in tempi recenti o addirittura qualche giorno fa in 5 Paesi, 4 europei e uno latino-americano.

     

    1. FRANCIA, ELEZIONI REGIONALI DEL 6 DICEMBRE 2015. In Francia la quota di chi oggi si dichiara cattolico è del 56% . Un sesto dei cattolici si dichiara praticante, poco più del 4% frequenta regolarmente la messa domenicale.

    Secondo un sondaggio dell’Istituto demoscopico Ifop, commissionato dal settimanale cattolico ‘Pèlerin’, il 32% dei votanti dichiaratisi cattolici ha votato per il Front National (media generale elettori: 28,4%), il 33% per la destra moderata. Tra i cattolici praticanti il 24% ha votato per il Front National (+ 15% rispetto al voto amministrativo del marzo 2015).

     

    2. SVIZZERA, CANTON TICINO, VOTO DEL 25 SETTEMBRE 2016 SULL’INIZIATIVA “PRIMA I NOSTRI” LANCIATA DALL’UNIONE DEMOCRATICA DI CENTRO (destra moderata) E APPOGGIATA DALLA LEGA DEI TICINESI. L’INIZIATIVA CHIEDEVA LA PREFERENZA PER I CITTADINI SVIZZERI NEL MERCATO DEL LAVORO. Nel Canton Ticino la quota di chi si dichiara oggi cattolico è attorno al 75% (gli agnostici oltre il 16%).

    L’iniziativa “Prima i nostri” è stata approvata con il 58,3% di voti e con una partecipazione del 44.9%.

     

    3. ITALIA, SONDAGGIO DEMOSCOPICO DI ‘DEMOS-REPUBBLICA’ SULL’ATTEGGIAMENTO DEGLI ITALIANI VERSO I CONTROLLI ALLE FRONTIERE, PUBBLICATO SU ‘REPUBBLICA’ IL 26 SETTEMBRE 2016. In Italia la quota di chi si dichiara oggi cattolico è del 75%. I praticanti regolari sono circa un quarto del totale dei cattolici.

    Pur non dando un valore assoluto al metodo dei sondaggi demoscopici (molto dipende da forma e contenuto delle domande e dalle emozioni del momento), si deve notare la dimensione percentuale delle risposte. Alla domanda: “Il trattato di Schengen prevede che le persone possano circolare liberamente all’interno di 26 Paesi europei. Secondo Lei, di fronte al problema dell’immigrazione e della sicurezza, l’Italia, rispetto ai confini con i Paesi europei, dovrebbe… ripristinare i controlli (48%); ripristinare i controlli, ma solo in circostanze particolari (35%); mantenere la libera circolazione senza controlli (15%), l’83% degli interpellati ha risposto che è a favore del ripristino di controlli ai confini italiani (sempre o in ‘circostanze particolari’… e oggi tali ‘circostanze particolari’ sembrano evidenti).

     

    4. UNGHERIA, REFERENDUM DEL 2 OTTOBRE 2016 SUI POTERI DECISIONALI IN MATERIA DI QUOTE DI MIGRANTI (UE O PARLAMENTO NAZIONALE?). In Ungheria i battezzati cattolici sono tra il 60 e il 65% della popolazione; i protestanti (calvinisti e luterani) attorno al 25%.

    La domanda sottoposta al giudizio popolare suonava così: “Volete che l’UE prescriva il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del Parlamento ungherese?”. I favorevoli sono risultati l’1,66%, i contrari il 98, 34%. I votanti il 43,63%, non raggiungendo la soglia del 50% richiesta perché il referendum fosse giuridicamente vincolante.

    ALTRE ANNOTAZIONI SUL REFERENDUM UNGHERESE. In due delle circoscrizioni, quelle di Györ-Moson-Sopron e quella di Vas, il quorum è stato raggiunto. Per quanto riguarda la partecipazione ai referendum gli ungheresi hanno sempre dimostrato scarso entusiasmo: dal 1998 solo i referendum del 2008 in materia di ticket sanitari e di tasse universitarie hanno superato il quorum del 50% (50,40%). Nel 1997 il referendum sull’adesione alla NATO ha registrato un’affluenza del 49%, nel 2003 quello sull’adesione all’UE del 45,62%: ambedue però sono stati considerati validi dato che a quel tempo non esisteva il quorum. I referendum del 2004 per bloccare la privatizzazione degli ospedali e sulla doppia cittadinanza hanno registrato un’affluenza del 37,49% (giuridicamente non vincolanti, dato che era già stato introdotto il quorum).

    Bisogna considerare poi che l’opposizione (conscia di essere in palese e netta minoranza) aveva invitato a disertare le urne come unica possibilità per impedire il raggiungimento del quorum. In cifre, su 8.261.394 potenziali elettori, ne sono andati alle urne 3.604.109 e i voti validi sono stati 3.338.483. I ‘no’ sono risultati 3.282.928 e i ‘sì’ 55.555. Anche nel caso in cui fosse stato raggiunto il quorum e lo si fosse superato - siamo generosi se guardiamo alla tradizione dei referendum in Ungheria - del 3%, i nella migliore delle ipotesi non sarebbero riusciti a oltrepassare il milione di suffragi (poco più del 10% degli elettori). Come si può evincere, in ogni caso il sarebbe andato incontro a una pesante sconfitta. Da notare inoltre, a proposito di partecipazione, che generalmente la disaffezione verso la politica in questi ultimi anni è esplosa un po’ dappertutto in Europa; e l’Ungheria non fa eccezione.

    Conclusione: Pur non avendo raggiunto il quorum per essere giuridicamente vincolante, il referendum ungherese ha confermato che il governo Orban gode su un consenso certamente e largamente  maggioritario nel Paese anche sulla questione dei migranti.

    Postilla: Il portale cattolico d’informazione della Conferenza episcopale ungherese ‘Magyar Kurir’ ha pubblicato – ed è dato significativo - pochi giorni prima del voto, il 23 settembre, un’intervista molto ampia al premier Viktor Orban sull’aiuto ai  cristiani del Medio Oriente, sull’istituzione di un Ufficio per i cristiani perseguitati nel mondo, sul futuro dell’Ungheria. Nei giorni precedenti il referendum, invece, il sito paravaticano Il Sismografo ha praticato la politica della censura verso le notizie ‘positive’ in provenienza dall’Ungheria e dei giudizi  insultanti verso lo stesso Orban. Evidentemente il suo conducator Luis Badilla mostra da diverso tempo un concetto molto particolare, diremmo in salsa cileno-allendista, dell’equilibrio nell’informazione. Nel contempo l’organo della Conferenza episcopale italiana, l’Avvenire galantinosi è distinto per un editoriale curvaiolo del direttore Marco Tarquinio e per articoli vari (tutti in grande evidenza) che giustamente l’ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede ha definito (e bacchettato) su twitter come“semplicisti, una caricatura dell’Ungheria”. Rileviamo poi che L’Osservatore Romano ha mantenuto una studiata sobrietà di toni: il 2 ottobre in seconda pagina ha titolato “Ungheria al voto” e il giorno successivo nel taglio basso di prima pagina “Senza quorum”, cui seguono poche righe in cui tra l’altro si annota che “i media mettono in luce gli appelli al boicottaggio dell’opposizione ungherese, ma anche la tradizionale disaffezione degli ungheresi per lo strumento referendario”.

     

    5. COLOMBIA, REFERENDUM DEL 2 OTTOBRE 2016 SULL’ACCORDO DI PACE CON LE FORZE ARMATE RIVOLUZIONARIE COLOMBIANE (FARC), In Colombia i cattolici sono oggi il 75% della popolazione, i protestanti (soprattutto evangelici pentecostali) attorno al 20% (e comprendono diversi battezzati cattolici convertiti).

     

    La domanda sottoposta al giudizio popolare suonava così: “Lei approva l’Accordo Finale per porre fine al conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?” I favorevoli sono risultati il 49,78% (6.377.482), i contrari il 50,22% (6.431.376), i votanti il 37,43% (13 milioni su quasi 35). L’Accordo è stato respinto.

    ALTRE ANNOTAZIONI SUL VOTO COLOMBIANO. A detta di molti osservatori il voto colombiano è stato una sorpresa, smentendo tutti i pronostici che indicavano una vittoria del , alcuni prospettando addirittura un vantaggio di una ventina di  punti percentuali. L’elettore doveva accettare o respingere un Accordo molto complesso e dettagliato contenuto in 297 pagine, diviso in 6 parti principali, raggiunto a Cuba il 24 agosto 2016 e firmato solennemente a Cartagena de las Indias (Colombia) il successivo 26 settembre. L’Accordo nelle intenzioni doveva por fine a un conflitto incominciato 52 anni fa, esportato dalla Cuba castrista come diversi altri per il trionfo della Revolucion nell’America latina.

    Purtroppo in Colombia, in 52 anni di guerriglia, tale ‘sogno’ (ma in Colombia da tempo la cocaina aveva sostituito l’ideologia) ha provocato oltre 260 mila morti, oltre 20 mila vittime di rapimenti, oltre 13mila vittime dei campi minati, circa 7 milioni di sfollati interni e distruzioni innumerevoli (in tutto ciò sono gravi anche le colpe di gruppi militari e paramilitari). Dell’Accordo sono apparse subito indigeribili per una fetta consistente dell’opinione pubblica colombiana le norme riguardanti il trattamento previsto per le FARC: perdóno per i guerriglieri non colpevoli di ‘crimini contro l’umanità’, riduzione di pena per i colpevoli pentiti di crimini contro l’umanità, possibilità di rientro nella vita politica, dieci seggi assicurati in Parlamento fino al 2026, 31 stazioni radio in FM, una rete televisiva. Nell’Accordo poi erano contenute altre norme che hanno provocato la sollevazione di molte comunità cristiane, in particolare evangeliche: sono quelle che ‘sdoganavano’ la scellerata ideologia gender. Non a caso il presidente Santos qualche giorno dopo il voto ha voluto ascoltare i leader evangelici, invitandoli nella sua residenza.

    E la Chiesa cattolica? Qui bisogna distinguere tra l’atteggiamento di papa Francesco e quello della Chiesa colombiana. Il Papa più e più volte ha pubblicamente incoraggiato gli sforzi per giungere a un accordo tra le parti (come durante il viaggio a Cuba e al ritorno dal viaggio in Armenia). Non solo: sul volo Baku-Roma (2 ottobre, prima di conoscere i risultati del voto) ha detto di voler subordinare il viaggio in Colombia all’approvazione dell’Accordo, in modo che non si possa più “tornare indietro”.  Il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, era poi presente alla firma solenne dell’Accordo a Cartagena, pronunciando per l’occasione un discorso nel quale ha evocato la “grande attenzione” con cui Francesco aveva seguito “gli sforzi di questi ultimi anni”. Insomma: il coinvolgimento della Santa Sede è stato rilevante (come si evince anche dai titoli dei tanti articoli pubblicati da L’Osservatore Romano). E la Chiesa colombiana? Ha preferito non lanciare una parola d’ordine, invitando unicamente ad andare a votare secondo coscienza. I vescovi, poi, non erano presenti alla cerimonia di Cartagena.

    Non stupisce allora che la prima reazione al voto del conducator de Il Sismografo sia stata tanto amara quanto rabbiosa (com’è nel suo stile da diverso tempo). Ha scritto (e sentenziato)Luis Badilla il 3 ottobre: “Allo stato attuale delle cose ciò che appare chiaro è un dato incontrovertibile: sono stati troppi i colombiani tiepidi, i colombiani a cui è mancato il coraggio della pace, i colombiani che si sono lasciati trascinare da sentimenti, forse comprensibili, ma del tutto anti-storici”. Aggiungendo: “Sembrerebbe che quest’atteggiamento sia stato molto diffuso in una larga fetta di elettori cattolici e ciò è paradossale”. Un disastro insomma: “La stessa voce del Papa è rimasta inascoltata”. Perciò la Chiesa colombiana non può cavarsela a buon mercato: “La Chiesa in Colombia è chiamata ora ad una profonda e seria riflessione. (…) Al momento del referendum non ha avuto la lungimiranza, forse per controversie interne, di prendere con coraggioso discernimento l’unica via possibile, necessarie giusta: mobilitare le coscienze in favore del ”.

    Sull’atteggiamento della Chiesa colombiana ha scritto anche - nel Corriere della Sera dell’8 ottobre - Andrea Riccardi, senza lamentarsi troppo, in un’analisi serena e onesta.  Annota il fondatore di Sant’Egidio, coinvolta intensamente anche nel processo di pace colombiano: “Con un suo intervento, forte e popolare com’è, (la Chiesa colombiana) avrebbe determinato la vittoria del , però schierandosi con una parte del Paese”. Le ragioni della rinuncia all’intervento in favore dell’Accordo sono “molteplici, spesso non dissimili da quelli della popolazione”. Ancora: “Molti vescovi erano perplessi verso le trattative con le FARC, sospettate di doppiogiochismo”. Nell’accordo poi c’erano “aspetti che riguardavano il ‘genere’, sgraditi alla Chiesa. Insomma: “La Chiesa non ha voluto assumere una posizione impopolare, che i vescovi non sentivano e che magari avrebbe loro alienato una parte del Paese”. E’ vero che “si è manifestato più entusiasmo per l’Accordo nel Papa che nei vescovi”; e “la permeabilità dell’episcopato ai timori della società nasce anche dalla relativa condivisione della prospettiva del Papa”.

     

    PER CONCLUDERE

    Chi ha avuto la costanza e la pazienza di arrivare fino in fondo nella lettura avrà notato che in cinque Paesi (Francia, Canton Ticino, Italia, Ungheria e Colombia) in cui l’humus cattolico è ancora largamente diffuso (pur se con intensità diversa e con le differenze che si sanno tra cattolici sulla carta, cattolici ‘tiepidi’, cattolici praticanti) l’insistenza continua di papa Francesco sul tema dei migranti e su quello del perdono/riconciliazione/misericordia non sembra avere quei riscontri popolari che Santa Marta (soprattutto la folta schiera dei turiferari) si attenderebbe. Il Papa parla, i cattolici ne prendono conoscenza… ma – da cittadini – in tanti poi privilegiano altre opzioni. C’è chi come in Francia vota – e non sono pochi – per il Front National; chi come nel Ticino appoggia l’iniziativa protezionista “Prima i nostri”; chi come in Italia vorrebbe ripristinare i controlli alle frontiere; chi come in Ungheria chiede di poter essere padrone in casa propria e non dipendere per le decisioni in materia di immigrazione da poteri europei; chi come in Colombia non si sente di usare misericordia verso chi ha ucciso tanti connazionali, di premiarlo con seggi in Parlamento e una rete mediatica. La realtà è questa e non valgono squillo di trombe né carambolar di turiboli per cancellarla.  

     

     

     

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