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    INTERVISTA A FRA' MAURO JOEHRI

    INTERVISTA A FRA' MAURO JOEHRI - di GIUSEPPE RUSCONI - 'Il CONSULENTE RE ONLINE' DI SETTEMBRE 2010

     

    Nell’intervista con il Ministro generale dell'ordine cappuccino si parla tra l’altro delle ‘urgenze’ da affrontare per riscoprire pienamente il carisma cappuccino, del virus della secolarizzazione e della credibilità della Chiesa oggi, di Turchia e del referendum svizzero anti-minareti

     

     

     

    Il 4 settembre del 2006 lo svizzero Mauro Jöhri, originario della trilingue Bivio nel canton Grigioni, diventava Ministro generale dell’Ordine cappuccino. Un anno dopo l’avevamo intervistato per “Il Consulente RE” nell’ambito di un ‘dossier’ sullo stato della situazione del suo Ordine (l’intervista è disponibile anche online nell’ Archivio storico di questa rubrica). Di anni ne sono passati (meglio: volati) altri tre ed eccoci di nuovo a via Piemonte 70, presso la Curia generalizia, per chiedere al sessantatreenne religioso di fare un bilancio di questa sua prima parte di Generalato. E’ così che abbiamo parlato dapprima di cifre (rilevante il dato che indica il sorpasso numerico dei frati ‘del Sud’ su quelli ‘del Nord’ del mondo), poi di alcune ‘urgenze’ descritte in una importante ‘lettera circolare’ di due anni fa e  riguardanti la quotidianità della pastorale, la  necessità di una formazione iniziale seria al carisma, l’approccio alle missioni, le vocazioni tardive, l’indispensabile riscoperta di modi e contenuti della vita in comune. Si è poi accennato ai recenti viaggi negli Stati Uniti, in Bolivia e a Cuba (oltre che in tanti altri Stati dell’America latina) e dei lavori in corso per la revisione delle Costituzioni. Molto intensa la parte dell’intervista che ha riguardato la secolarizzazione e la credibilità odierna della Chiesa. Si è poi passati a fr. Bernardo da Andermatt, grande predecessore pure elvetico di fr. Mauro (di cui è uscita da poco in italiano una biografia molto agiografica ma assai interessante, pubblicata in tedesco sessantasette anni fa), dell’altro cappuccino svizzero fr. Anastasio Hartmann (missionario in India attorno alla metà dell’Ottocento), della presenza cappuccina in Turchia, dell’assassinio del vescovo cappuccino Luigi Padovese, infine del referendum con cui a larga maggioranza il popolo svizzero ha bloccato l’edificazione di nuovi minareti sul suolo nazionale…  

    Fr. Mauro, L’abbiamo intervistata tre anni fa (vedi “Il Consulente RE” 7/2007), un anno dopo la Sua elezione a Ministro generale dell’Ordine Cappuccino. In quell’occasione aveva raccontato anche delle Sue prime esperienze vissute nella nuova veste. Oggi di anni dall’elezione ne sono passati quattro e ne mancano due al prossimo Capitolo generale. Incominciamo dalle cifre: tre anni fa i membri dell’Ordine erano circa 10.700. Adesso?

    Siamo in diminuzione. Oggi siamo circa 150 in meno. Siamo decisamente in crescita in India e in Africa, stabili nell’America del Sud, in leggera ripresa vocazionale negli Stati Uniti. Invece l’Europa non conosce ripresa, ad eccezione di Polonia, Ucraina, Bielorussia. La conseguenza è che numericamente da qualche tempo i frati del Sud hanno superato quelli del Nord del mondo.

    In questi anni siete approdati a rive nuove? Contate su presenze in Paesi nuovi?

    Abbiamo avviato dei progetti, su cui ritengo non sia ragionevole pronunciarsi. Più che di nuove presenze (ne abbiamo una in Bolivia e un’altra nel Kuweit) si può parlare di un consolidamento di presenze. Abbiamo fatto un grosso sforzo per incrementare la collaborazione tra le province: ad esempio il Belgio in difficoltà riceve aiuto da quella Varsavia che tempo fa aveva sostenuto in anni di crisi. Si rafforza l’impegno dell’America del Sud a inviare frati in quella del Nord per la pastorale degli immigrati.

    Lei non è stato recentemente negli Stati Uniti?

     

    Due mesi fa ero in visita nel Texas e mi sono rallegrato della nostra presenza tra i messicani: parrocchie frequentate da cinquemila persone, milleduecento ragazzi a catechismo, altro che chiese vuote! Dove noi siamo in grado di rispondere ai bisogni fondamentali dell’emigrazione, ci andiamo con entusiasmo. Del resto la ripresa vocazionale negli Stati Uniti è originata soprattutto dai figli degli immigrati.

    Quali le possibili conseguenze del fatto che la maggioranza dei frati proviene ormai dal Sud del mondo?

     

    Questo dato di fatto implica un grosso impegno a livello della trasmissione del carisma e anche a livello economico…

    Quali i motivi?

    Per quanto riguarda il carisma: in molti Paesi del Sud entrare in un Ordine religioso – era così anche da noi - rappresenta un bell’avanzamento sociale, la possibilità di accedere a studi, di espatriare per altri studi accademici o per servizio. Molto bello, molto positivo. Tutto questo però, da solo, non è sufficiente per ‘la perfetta letizia’. Chi diventa frate, lo fa per donarsi, per mettere la propria vita al servizio della causa. Che non può essere ristretta alla propria persona, famiglia, clan, ma è connotata dall’universalità.

    Diceva anche del grosso impegno economico conseguente all’aumento dei frati provenienti dal Sud…

     

    I giovani che aderiscono alla nostra vita abbisognano di una formazione, che dura parecchi anni ed è costosa. La pastorale nei Paesi del Sud spesso non può essere fonte di entrate. Dunque è il Nord che deve aiutare, ma il Nord conosce un forte decremento. In sintesi: aumentano i bisogni e nel contempo diminuiscono le possibilità di farvi fronte. Ciò secondo me porterà a forti cambiamenti nello stile di vita: ci dobbiamo preparare ad affrontare grandi sfide anche in quest’ambito.

    Fr. Mauro, in una delle Sue Lettere circolari più importanti, intitolata Ravviviamo la fiamma del nostro carisma! e datata 4 ottobre 2008 (Solennità di san Francesco), Lei – forte dell’esperienza dei primi due anni di Generalato – inizialmente indica con chiarezza “alcune urgenze del momento” riguardanti la vita quotidiana dell’Ordine…

    Prima di rispondere sulle ‘urgenze’ vorrei dire che quella Lettera ha avuto un’accoglienza formidabile all’interno dell’Ordine, del tutto inaspettata. E’ stata tradotta in molte più lingue rispetto a quelle ufficiali, molte Province ne hanno fatto un argomento di studio approfondito, i formatori si sono ritrovati a lavorare sulle tematiche ivi contenute. Di solito io cerco di evidenziare il positivo nell’Ordine, per incrementarlo; nella Lettera invece ho messo il dito su alcune lacune, indicandole chiaramente.

    Veniamo allora alla prima “urgenza”, che – Lei osservava – “riguarda un calo nella disponibilità ad essere inviati in missione per la prima evangelizzazione o comunque in luoghi segnati da situazioni difficili per ragioni economiche, sociali e politiche. (…) Si stenta parecchio ad aderire a tali richieste e ciò anche da parte di Circoscrizioni che hanno un buon numero di vocazioni”. E’ cambiato qualcosa sotto questo aspetto?

    Il discorso è stato recepito. Vedo che quando c’è bisogno di frati per ragioni pastorali dall’America del Sud c’è disponibilità ad andare in quella del Nord. Resta difficile trovare disponibilità per andare laddove non esiste nulla e si deve cominciare da zero. Non si può più chiedere agli europei, che non sono in grado di soddisfare tali bisogni; occorre bussare alla porta dei conventi del Sud…ad esempio che degli indiani si spostino in Africa o degli africani in altri Paesi del loro continente. Una risposta positiva dipende fortemente dalla presenza di un’esperienza profonda di fede.

    Una seconda “urgenza” concerneva “il tempo consacrato alla presenza missionaria”. Ovvero: “Vi sono Circoscrizioni che hanno detto il loro per essere presenti in un Paese o in un territorio di missione, e si trovano però a mendicare o a volte a lottare con frati che vi sono destinati poiché molto spesso il tempo di permanenza si riduce a tre anni o poco più”. Lei si chiedeva: “Come potremo conoscere a fondo una cultura se non ci diamo nemmeno il tempo di imparare e di approfondire la lingua del luogo? Come potremo amare le popolazioni a noi affidate se, con la mente e il cuore, siamo già altrove”?

    Ho constatato che non raramente i Provinciali, pur di mandare qualcuno, accettano di entrare in questa logica del ‘tempo limitato’, magari con l’aggiunta della promessa di poter proseguire al ritorno gli studi superiori. Per me non è questa una logica proprio evangelica: forse a volte si dovrebbe evangelizzare non solo chi non conosce il Vangelo, ma anche chi lo annuncia! La nostra società è tutta tesa a operare in modo da procurarsi vantaggi personali, noi invece vogliamo mettere la nostra vita al servizio degli altri. Ho molto insistito e insisto su questo punto, perché l’amore è fondamentale. Se non conosco la cultura del Paese in cui opero, se non ne conosco la lingua, come farò a comunicare e a far penetrare il Vangelo nei miei interlocutori? Mi sembra che l’Ordine abbia preso coscienza del problema, anche del fatto che abbiamo puntato molto sulla formazione accademica, troppo poco sulla formazione iniziale, che prevede l’introduzione a un preciso stile di vita. Abbiamo dato per scontato che lo stile di vita si apprendesse naturalmente, ma in effetti non è così: si apprende se si è accompagnati.

    In parte, fr. Mauro, Lei ha già accennato al tema dei frati del Sud destinati al Nord. Nella Lettera del 2008 è la terza delle “urgenze”. Lei scriveva: “Avverto nei candidati delle giovani Circoscrizioni un desiderio molto forte di poter un giorno approdare sulle rive delle Circoscrizioni del Nord per rimanerci stabilmente. C’è chi pensa che , per il fatto stesso di essersi fatto cappuccino, abbia acquisito il diritto di poter accedere in seguito ad una specializzazione di tipo universitario. E’ evidente che non possiamo sostenere un tale ordine di cose, pena il diventare un’agenzia di promozione sociale. (…) Se veniamo inviati agli studi superiori è perché le persone che in seguito ci verranno affidate possano profittarne. Altrimenti che senso ha?”. C’è un’inversione di tendenza?

     

    Situazioni del genere non si possono risolvere in un paio d’anni. Del resto esprimono le tendenze di tutta una realtà sociale –in questo caso quella africana, ma non solo- che guarda al Nord come all’obiettivo da raggiungere. Il Continente africano fatica a trovare un assetto politico-economico soddisfacente: la gente scappa perché lì non c’è avvenire. Ai giovani africani che vengono da noi dobbiamo far capire che noi vogliamo che si formino, che studino, ma poi tutto questo lo portino alla loro gente.

    La quarta “urgenza” riguarda un problema diverso, che emerge dove le vocazioni sono poche numerose: sostanzialmente è quello di chi diventa cappuccino in età adulta. Lei osserva a tale proposito: “Il pericolo è che ciascuno si porti dentro il proprio progetto personale da realizzare senza tener conto di quello della fraternità”. E ancora: “Chi arriva da noi dopo essere passato per un processo di conversione, sovente, se i tempi dell’accompagnamento non sono stati adeguati e abbastanza lunghi, tende a regredire a forme e visioni non corrispondenti al nostro ideale di vita.”. Lei  dunque preferisce una scelta di vita in età giovanile o comunque non troppo in là con gli anni?

    Questo è un argomento che è molto dibattuto in alcune parti del mondo, attorno al limite di età ancora accettabile per l’ammissione all’Ordine. La tendenza prevalente è di non accettare candidati, salvo eccezioni, sopra i 35 anni.

    Per quale motivo?

    Constatiamo che le persone che vengono da noi dopo una certa età sono già molto strutturate sia nell’approccio agli altri che nella loro dimensione religiosa. A livello superficiale forse aderiscono al nostro carisma, però a volte – appena diminuisce il nostro accompagnamento – riemerge in loro la ‘vecchia’ struttura. E ciò non sempre facilita la vita in comune con un progetto comune. Un tempo si pensava che i candidati di una certa età avessero bisogno di meno accompagnamento; oggi mi sono convinto del contrario. Se non c’è una flessibilità della persona, diventa molto difficile fare un cambiamento radicale come quello che proponiamo noi. Non è che tali candidati siano cattivi, ma oggettivamente non è semplice far sì che su certi argomenti si rimettano in questione secondo il nostro carisma.

    Quinta e ultima “urgenza”: “Qua e là – Lei scrive – affiora anche un netto rifiuto per il lavoro manuale e domestico. Abbiano tanti di quegli impiegati per cui ci abituiamo fin dai primi anni della formazione a farci servire in tutto. Gli uni lo fanno per potersi dedicare pienamente al lavoro pastorale mentre gli altri perché impegnati negli studi”…

    E’ chiaro che la struttura delle nostre fraternità è molto cambiata da quando abbiamo degli impiegati. Quando esamino i resoconti finanziari delle varie province, noto ormai che la spesa più alta è quella riguardante i dipendenti. Ciò ci trasforma in “serviti”: ci permetterà di essere più presenti in parrocchia, ma intacca quella che è una dimensione fondamentale del nostro stile di vita, il vivere fraternamente, poveramente, parcamente, Una vita in cui ci si aiuta vicendevolmente e in cui ognuno fa la sua parte anche nei servizi di cucina e di pulizia, nella gestione della fraternità. Persisto a credere che la testimonianza fraterna sia il primo impegno pastorale per un cappuccino. Sono stato recentemente in Bolivia, dove da poco abbiamo una fraternità di cinque membri che fanno tutto da sé, collaborano saltuariamente in parrocchia, vivono poveramente, danno una testimonianza con un grande impatto sui giovani, che in alcuni casi già hanno cambiato stile di vita.

    La Bolivia è uno dei tanti Paesi latino-americani che Lei ha visitato quest’estate. Restiamo sull’argomento: quale impressione Le ha lasciato Cuba?

    Sono stato anche a Cuba, una realtà che mi ha subito impressionato per la povertà diffusa… case molto modeste, strutture cadenti. Tutti vogliono andarsene e questo mi ha spinto a chiedere un rafforzamento della nostra presenza. Bisogna stare con i cubani, che arrancano nella quotidianità…  mi sembra che questa sia proprio una situazione che esige una testimonianza francescana!

    E’ in corso un lavoro di revisione delle Costituzioni, come richiesto dall’ 83.mo Capitolo generale del 2006, quello che L’ha eletta. A che punto siamo?

     

    Le nostre Costituzioni sono molto spirituali, riprendono i dodici capitoli della Regola di san Francesco e li ampliano: il Capitolo generale ci ha indicato l’opportunità di dividere il testo fondamentale, dove si parla del nostro carisma, da un testo ‘legislativo’, le cui norme possono anche variare secondo le contingenze. Se così accadesse, non dovremmo più ricorrere alla Santa Sede per ottenere l’autorizzazione alle modifiche.  Bisogna poi integrare nel testo fondamentale le riflessioni fatte dall’Ordine negli ultimi vent’anni: nei Consigli plenari (una quarantina di frati di tutto il mondo) si sono ad esempio approfonditi i temi dell’economia fraterna e della minorità. Scorporo da una parte, arricchimento e attualizzazione del testo dall’altra: il Capitolo generale del 2012 dovrà esaminare una proposta completa per giungere alla fine dei lavori con le Costituzioni rinnovate. Che saranno poi sottoposte alla Santa Sede per la necessaria approvazione.

    Non dev’essere facile modificare testi fondamentali, perché presumo che all’interno dell’Ordine ci siano sensibilità differenti, derivate anche dalle diversità culturali…

     

    Lavorare oggi su un testo del genere non è facile. L’età del computer pretende la velocità di esecuzione: quel che è nuovo la mattina, sembra già vecchio la sera. La nostra mentalità è diversa. Poi tra noi ci sono differenze culturali. Ci sono alcuni al Nord che, provati dalla forte secolarizzazione, vorrebbero azzerare le Costituzioni e ricominciare tutto daccapo. Altri invece sono legati al testo che abbiamo oppure sono sostanzialmente indifferenti. Un obiettivo è stato raggiunto: quello che si rimettesse mano alle Costituzioni, le si conoscesse, si riflettesse su di esse. Sono molto grato alle Province per gli stimoli dati e il lavoro fatto.

    Nella Sua ultima risposta ha accennato alla secolarizzazione al Nord. Riandiamo allora all’intervista al “Consulente RE” di tre anni fa, in cui Lei così si esprimeva: “ Specialmente (ma non solo) al Nord esiste un virus molto insidioso: se un tempo la minaccia di soppressione giungeva dall’esterno, oggi è nelle persone stesse che si insinua il sospetto dell’inutilità di una vita consacrata, caratterizzata anche dal celibato. Il virus della secolarizzazione non si ferma certo alla porta dei conventi”…

    A mio parere oggi la situazione è ancora più grave, specialmente nell’Europa del Nord e negli Stati Uniti. E’ evidente che la grave crisi attorno agli abusi sessuali ha toccato anche noi religiosi, anche noi cappuccini: non saranno numerosissimi, ma, fosse anche uno solo, sarebbe già troppo. Il riverbero che ciò ha avuto nella stampa, nell’opinione pubblica, la conseguente enorme perdita di credibilità da parte dell’istituzione intera compresi gli ordini religiosi (in particolare per i collegi che avevano), tutto questo ha intaccato e intacca pesantemente l’immagine della vita religiosa nella società attuale. Stiamo pagando uno scotto molto alto e dobbiamo avere il coraggio di ammettere con grande onestà che sono stati fatti molti sbagli, si è data scarsa attenzione al fenomeno, si è pensato più a salvare l’istituzione che le vittime, anche se ciò è avvenuto perlopiù in tempi in cui la sensibilità e la conoscenza dei danni provocati dagli abusi non era la stessa di oggi.

    Papa Benedetto XVI, anche nella recente visita in Gran Bretagna, è tornato sull’argomento con parole sferzanti e nel contempo con grande umiltà…

     

    Non c’è altra via da percorrere. Ciò che è triste è che ci sono sempre volute spinte dall’esterno perché si affrontasse il problema, che è stato trascurato e nascosto per tanto tempo. Io condivido pienamente e ammiro papa Benedetto XVI per la chiarezza e l’insistenza con cui torna sull’argomento. Si tratta ora di valutare responsabilmente come procedere nei casi di abusi. Ci troviamo a dover dimettere delle persone che si sono macchiate di questo reato grave: certo le dimissioni sono una punizione. C’è però anche da aggiungere che chi viene dimesso poi non è più ‘protetto’ dalle sue pulsioni che potrebbero concretizzarsi ai danni di qualcun altro: e qui si deve ancora riflettere.

    Passiamo ad un altro argomento: è uscita recentemente la traduzione integrale italiana (la prima in assoluto) della biografia di fr. Bernardo da Andermatt (fu anche nominato arcivescovo), ministro generale per 24 anni, dal 1884 al 1908. Un suo predecessore svizzero come Lei, nato come Lei nel cuore delle Alpi (urano lui, grigionese Lei), che il suo segretario fr. Hilarin Felder ha esaltato nel testo uscito in tedesco nel 1943. La biografia, come osserva nella prefazione fr. José Angel Echevarría,  è in realtà una sorta di agiografia: tuttavia fr. Bernardo fu sicuramente una personalità di grande rilievo nella storia cappuccina. Molto operò per riunire l’Ordine disperso dopo le soppressioni in vari Stati d’Europa, molto operò per un rinnovamento nella formazione, molto per il potenziamento della presenza missionaria. A quest’ultimo proposito il suo motto “Una Provincia, una Missione” è stato concretizzato alla fine dell’Ottocento e nel Novecento. E’ ancora attuale?

     

    Il motto ha avuto un grande successo, come Lei dice giustamente, a fine Ottocento e nel Novecento. Oggi le Province che hanno dato origine a nuove Province – penso a quasi tutte quelle italiane e alle loro fondazioni nell’America del Sud – non sono più in grado di assumersi la responsabilità di una nuova Missione. Stiamo qui insistendo sulla necessità invece di una collaborazione interprovinciale: siano cioè più Province ad assumersi una comune responsabilità altrove.

    Fr. Bernardo da Andermatt, nell’ambito dell’attività missionaria, ha sviluppato l’idea di un altro svizzero, fr. Anastasio Hartmann (missionario, poi vescovo in India per più di vent’anni, Procuratore generale per le missioni cappuccine tra il 1858 e il 1860). A che punto è la causa di canonizzazione di quest’ultimo?   

     

    La causa è giacente presso la Congregazione delle Cause dei santi. Il 21 dicembre 1998 è stato emesso il decreto che riconosce l’eroicità delle virtù. Siamo in attesa del miracolo, necessario perché possa essere proclamato beato. Fr. Anastasio è stato un uomo eccezionale, ha dato la sua vita per l’India, ha tradotto la Bibbia in indostano, ha accettato di diventare vescovo di Bombay in tempi molto difficili per la presenza di un altro vescovo nominato dal re del Portogallo.

    Torniamo a fr. Bernardo da Andermatt. Si è rilevato che la biografia di padre Hilarin Felder – pur ricca di dettagli molto interessanti – è sostanzialmente agiografica. Lei che giudizio dà del Suo predecessore?

    Ha fatto moltissimo per il nostro Ordine, l’ha ricompattato, l’ha riportato all’osservanza delle regole, l’ha aperto al mondo stimolando una grande fioritura delle Missioni. L’ha fatto utilizzando gli strumenti del suo tempo. Oggi tali strumenti appaiono inadatti al nostro tempo, ma anche noi abbiamo lo stesso entusiasmo e ci confrontiamo con una sfida analoga: dobbiamo però mettere a punto strumenti nuovi e ciò non è facile, dato che i mezzi scarseggiano.

    Nel dna francescano c’è anche il rapporto con l’Islam. Per andare nel concreto, in Turchia la presenza cappuccina è plurisecolare (dal 1587): oggi i frati nel Paese sono una ventina. Lei tra l’altro, nella visita alla Custodia di Turchia, ha accolto il Papa a Efeso-Meryem Ana il 29 novembre 2006. Però in Turchia la vita per i pochi cattolici è dura e l’assassinio nel 2006 di don Andrea Santoro e quello di quattro mesi fa di monsignor Luigi Padovese, cappuccino, sono stati momenti molto dolorosi…

    Per me l’uccisione di Luigi Padovese è stata un colpo terribile: di Luigi ero molto amico, compagno di studi, ci siamo sempre mantenuti in contatto. In Turchia i cattolici sono una minoranza piccolissima, non abbiamo nessun riconoscimento.

    I cappuccini però resteranno in Turchia…

     

    Non sono molti e operano in situazioni difficili. Sono dei testimoni credibili. Rimarranno al servizio delle piccole comunità cattoliche. Non abbiamo nessuna intenzione di ritirarci. C’è un’altra realtà nel mondo islamico cui vorrei accennare: è quella, che ci vede molto impegnati, nel vicariato di Arabia. Ora abbiamo assunto, su richiesta di Propaganda fide, anche la responsabilità per il Kuweit, in cui abbiamo inviato cinque frati. In quella regione siamo al servizio dei tanti immigrati. Certo il nostro vescovo, un altro svizzero, Paul Hinder, deve trattare spesso con gli sceicchi riguardo ai luoghi di incontro e di culto delle migliaia di immigrati.

    A proposito di segni e di Svizzera: non posso non ricordare quel 29 novembre 2009 in cui il 57,2% dei votanti ha bocciato l’edificazione di minareti (sottolineo: di minareti, non di moschee e sale di culto, poiché di quelle ce ne sono oltre millecinquecento) sul suolo elvetico. Lei sa che nel mondo, in primo luogo in Europa, ci sono state reazioni furibonde: e ministri e presidenti della Camera e commissari e funzionari di organizzazioni internazionali e… e…

     

    Penso che molti di quelli che si sono stracciate le vesti si sarebbero confrontati nei loro Paesi – se fosse stato possibile al popolo votare sull’argomento – con un risultato analogo. Evidentemente nella maggior parte della popolazione serpeggia una paura nei confronti dell’espansione islamica: paura fondata, non fondata…. questo è un altro discorso. Ed è vero che dietro questo voto c’è anche la richiesta di un minimo di reciprocità nel riconoscimento della libertà religiosa: se noi riconosciamo la libertà religiosa agli altri, sarebbe auspicabile che gli altri, nei loro Paesi,  almeno permettano- anche se non automaticamente - l’indispensabile libertà di culto. Tutto questo però non comporta per me l’approvazione dell’esito del referendum: penso che tale risultato renda più difficile il cammino del dialogo paziente con la realtà dell’Islam. Non posso non pensare a san Francesco, che è andato a incontrare il Sultano e ha imparato dall’Islam, come si evince dall’appello ai reggenti delle nazioni perché richiamassero pubblicamente la gente a lodare Dio.

    Fr. Mauro, non La disturberebbe allora un minareto per esempio nella natia e idillica Bivio, ai piedi dello Julier , con un muezzin che richiami alla preghiera i fedeli musulmani…

    Per il momento a Bivio non è il caso. Fin qui ci sono due chiese e alle sei di mattina si sente suonare l’Ave Maria: è bello. Non penso che a Bivio si intenda costruire un minareto: se si fa, li si costruisce in città, con tutti i rumori già presenti. No, la questione dei minareti è solo la punta dell’iceberg di un non facile dialogo…

    A quattro anni dall’elezione a ministro generale che bilancio può trarre?

     

    La sfida è entusiasmante, molto impegnativa, per riuscire a dare un’impronta all’Ordine. Ho viaggiato molto, ho conosciuto l’Ordine in tutto il mondo. Sono impegnato a indirizzare l’Ordine sulla strada del dono, della testimonianza coerente in comunione fraterna. I frati devono essere convinti che la merce che presentiamo con paziente continuità è la migliore in un mondo che per altri versi va in direzione opposta, ossessionato com’è dal ‘tutto e subito’.

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