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    STANISLAW DZIWISZ: LA FEDELTA' DI UNA VITA

    ROSSOPORPORA DI APRILE 2011 - 'IL CONSULENTE RE ONLINE'

     

    I cardinali Dziwisz, Amato, Re, Ruini, Cottier ricordano papa Giovanni Paolo II in occasione della sua beatificazione. Il card. Ruini e il 'Sillabo'. Il card. Piacenza e il celibato sacerdotale. Il card. Rylko e le GMG; il card. Schoenborn e Youcat.Il card. Cordero Lanza di Montezemolo e le Fosse Ardeatine. La morte dei cardinali Vithayathil e Saldarini 

     

    Non possiamo non dedicare l’apertura di questo Rossoporpora alla beatificazione di Giovanni Paolo II, un avvenimento ‘istituzionale’ molto atteso, sebbene per molti sia solo la conferma di una realtà già ben presente nella vita quotidiana di Karol Wojtyla. Chi meglio del suo segretario particolare per oltre quarant’anni, l’odierno cardinale arcivescovo di Cracovia Stanislaw Dziwisz, può custodirne la memoria e ricordarne la personalità? Il porporato settantaduenne, ha detto ad Avvenire del 15 gennaio – poco dopo l’annuncio della data della beatificazione – che “sempre è stato convinto della santità di Karol Wojtyla”. Perciò “la notizia della beatificazione è un sigillo autorevole” all’esperienza da lui vissuta accanto a un uomo eccezionale, prima a Cracovia, poi a Roma. Il segreto della santità di Karol Wojtyla? “ Il modo in cui pregava, ovunque, in ogni condizione, con grande semplicità e naturalezza”.  Il fedele segretario, come ha evidenziato in un’altra intervista ad Avvenire (stavolta del 28 marzo 2010), è sempre rimasto colpito dal grande affetto della gente per il “suo” papa: “Quando vado in diverse parti del mondo noto che la sua figura è ancora viva”. E “la gente vuole sentire parlare di lui, vuole approfondire il suo insegnamento”.

    Restiamo sull’argomento, dando la parola ad alcuni tra i molti cardinali che hanno voluto ricordare papa Wojtyla. Nella relazione svolta in occasione del Convegno del primo aprile presso la Pontificia Università della Santa Croce sulla beatificazione di Giovanni Paolo II (vedi anche la cronaca di Marta Petrosillo in Attualità di questo stesso numero) il cardinale Angelo Amato, illustrando ampiamente il significato della fama santitatis nel caso del Pontefice polacco, ha osservato: “Per un riscontro empirico è sufficiente sostare un poco in piazza San Pietro, in qualsiasi giorno dell’anno, per vedere la fila interminabile dei fedeli che si recano in pellegrinaggio alla sua tomba nelle grotte vaticane”. Questo “a confermare che la sua fama di santità è una communis opinio, cioè un’opinione diffusa tra i fedeli nei confronti della bontà di un servo di Dio, testimone eroico ed esemplare della sequela Christi”. In sintesi “nella fama di santità di Giovanni Paolo II vediamo presenti chiaramente le due dimensioni che la costituiscono: quella dal basso, che proviene dalla considerazione che i fedeli hanno della straordinarietà delle sue virtù; e quella dall’alto, che consiste nella grazia di Dio, che rende possibile l’esercizio eroico delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. La sua santità è, infatti, frutto sia della grazia sia dell’impegno umano nell’assidua scelta del bene”.  

    In una conferenza tenuta nel duomo di san Giusto a Trieste mercoledì 6 aprile, il cardinale Giovanni Battista Re ha rievocato dapprima Giovanni Paolo come “Papa delle radici cristiane”, per poi riandare alla sua esperienza personale (soprattutto da Sostituto Segretario di Stato) con lui: “La Divina Provvidenza – ha detto il porporato settantasettenne – mi ha concesso la gioia e il privilegio di essere vicino a papa Giovanni Paolo II dall’inizio del Pontificato fino alla fine. Vivendo vicino a lui, molte erano le cose che mi colpivano”. Quali in particolare? “Impressionava la capacità che aveva di parlare alle folle, il fascino che esercitava sulla gioventù; colpiva il suo coraggio, la facilità che aveva di parlare molte lingue; colpiva la sua carica umana, la profondità del suo pensiero”. Qualcosa però colpiva ancora di più: “L’intensità della sua preghiera (…), profonda e intimamente personale e in pari tempo legata alle tradizioni e alla pietà della Chiesa”, tanto che “quando pregava sembrava perdere il senso del tempo” e “si notava in lui un trasporto che gli era connaturale”, assorbendolo “come se non avesse impegni urgenti che lo chiamassero alla vita attiva”.

    In un’intervista a Repubblica del 17 aprile il cardinale Camillo Ruini rileva che la comprensione del pontificato di Giovanni Paolo II è maturata con gli anni: “All’inizio le incomprensioni e le diffidenze erano molte, soprattutto a livello di ceti dirigenti, anche ecclesiastici, mentre il popolo spontaneamente simpatizzava con lui. Poi lo si è capito e amato sempre di più, fino a che è diventato la persona più amata del mondo. Capire però una persona fino in fondo non è dato ad alcuno, se non a Dio, specialmente quando si tratta di un santo”. Santo già da vivo, come ha detto il cardinale Stanislaw Dziwisz? “Certamente. Del resto la santità viene riconosciuta dalla Chiesa solo dopo la morte, ma, se è reale, deve esserci durante la vita. Questo è anche il significato della beatificazione imminente”.

    Per l’ottantanovenne cardinale Georges Marie Martin Cottier, teologo emerito della Casa pontificia, ciò che colpisce maggiormente nell’eredità di Giovanni Paolo II “è la sua continua presenza nel cuore della gente, che vive un’autentica devozione nei suoi confronti”. Papa Wojtyla, rileva più in là il porporato svizzero nell’intervista apparsa su Avvenire del 3 aprile, “stava accanto alle persone rimanendo sempre unito a Dio. Da questo di certo nasceva la grande pace e serenità che trasmetteva sempre, pur essendo impegnatissimo – quando era con qualcuno, non aveva mai fretta – e anche provato fisicamente”. Osserva poi il teologo domenicano a proposito del “Non abbiate paura”: “La sola espressione del Non abbiate paura è stata fantastica, poiché Giovanni Paolo II aveva percepito che i regimi totalitari, ma non solo, incutevano paura alla gente”. E “la volontà di liberare la gente da questa paura ha guidato sempre i suoi interventi, come quelli che fece per Solidarnosc o per lo scoppio della prima guerra in Iraq”. Si deve evidenziare che “l’unico suo strumento erano le parole: sapeva trovare quelle giuste al momento giusto con grande semplicità, vedeva dove vera il male e dove era il rimedio”. Un altro aspetto della sua personalità va sottolineato: “Ha sempre saputo ascoltare i suoi collaboratori: personalmente ha avuto di certo delle grazie profetiche, eppure non dobbiamo pensarlo come un profeta solitario che sa tutto e decide tutto in autonomia”.

    A proposito dei ripetuti rifiuti dell’Unione europea e di diversi Paesi europei di aiutare l’Italia a ‘governare’ gli sbarchi di immigrati al Sud, il 12 aprile il cardinale Tarcisio Bertone, a margine del convegno promosso all’Istituto Sturzo sulla figura del cardinale Siri, non ha nascosto il suo parere: “Non c’è dubbio che l’Europa abbia profondamente deluso”- ha rilevato il Segretario di Stato vaticano, rincarando: “Credo che i primi delusi sarebbero i padri fondatori dell’Europa”, dato che “l’Europa ha perso il suo spirito profondo, uno spirito di grande solidarietà prima di tutto tra i popoli dell’Europa e poi verso gli altri popoli”. Sull’argomento immigrazione nella prolusione del 28 marzo in apertura del Consiglio permanente della Cei era intervenuto di nuovo il cardinale Angelo Bagnasco ricordando che “la stragrande maggioranza di coloro che arrivano sono giovani”: si viene perciò a creare una situazione connotata da una parte da “coloro che, vogliosi di vita, spingono per entrare”, dall’altra dalla “vecchia Europa che tenta di difendere i propri bastioni”. Qualche giorno dopo, il 3 aprile, a margine di un Convegno a Genova, il porporato sessantottenne ha aggiunto: “L’Europa è in debito verso l’Africa; pertanto è necessario che questo debito venga soddisfatto nel modo migliore, più efficace possibile. Quindi l’Italia non sia lasciata sola rispetto a  questa emergenza”.

    Partecipando il 4 aprile alla presentazione di due libri del cardinale Giacomo Biffi (Memorie e digressioni di un italiano cardinale e L’Unità d’Italia), in una sala dell’Archiginnasio bolognese strapiena, il cardinale Camillo Ruini ha tra l’altro rilevato che “il Sillabo del 1870 è un documento di straordinaria attualità che Giacomo Biffi è riuscito a inquadrare nella prospettiva della fantasiosa sapienza di Dio”. In tale contesto, ripensando alla definizione del primato e, in determinati casi,  dell’infallibilità pontificia, il presidente del Progetto culturale della Chiesa italiana ha dapprima citato l’opinione del confratello arcivescovo emerito di Bologna (Rabbrividisco – ha scritto quest’ultimo – all’ipotesi fortunatamente del tutto astratta di una cattolicità che fosse alle prese con la confusione odierna senza avere il sostegno di queste definizioni dogmatiche) per poi aggiungere che una tale riflessione non gli era ignota: “Ha accompagnato spesso anche me, traducendosi in un impulso ad essere al fianco dei pontefici del nostro tempo, accettando di prendere la propria parte di impopolarità compensata da una più abbondante popolarità. Si tratta comunque di una situazione patologica che spero transitoria. L’intero episcopato di tutto il mondo deve essere al fianco del Papa nella missione di difesa e testimonianza della fede autentica”. Da Avvenire del 5 aprile rileviamo un’altra ragione per cui il cardinale Ruini ritiene attuale il Sillabo: “L’attacco oggi in corso alla visione cristiana delle cose si avvale delle stesse aberrazioni denunciate da Pio IX: il laicismo che rifiuta ogni ipotesi di intervento di Dio nella storia, quella del relativismo e di una antropologia radicalmente riduttiva senza dimenticare lo scientismo”.

    Nella prima pagina de L’Osservatore Romano del 23 marzo il cardinale Mauro Piacenza esprime alcune inequivoche riflessioni sulla questione del celibato sacerdotale. Già l’esordio è una sorta di sintesi anticipata, chiara e netta: “Residuo preconciliare e mera legge ecclesiastica. Sono queste, in definitiva, le principali e più dannose obiezioni che riaffiorano nel periodico riaccendersi del dibattito sul celibato sacerdotale”. Continua il prefetto della Congregazione per il Clero: “Eppure niente di questo ha reale fondamento, sia che si guardi ai documenti del Concilio Vaticano II sia che ci si soffermi sul magistero pontificio”. In realtà “il celibato è un dono del Signore che il sacerdote è chiamato liberamente ad accogliere e a vivere in pienezza”.

    Si rammarica poi il sessantaseienne porporato genovese: “Il dibattito sul celibato, che periodicamente nei secoli si è riacceso, certamente non favorisce la serenità delle giovani generazioni nel comprendere un dato così determinante della vita sacerdotale”. Certo “in un mondo secolarizzato è sempre più difficile comprendere le ragioni del celibato”. E tuttavia, “come Chiesa dobbiamo avere il coraggio di domandarci se intendiamo rassegnarci a una tale situazione, accettando come ineluttabile la progressiva secolarizzazione delle società e delle culture o se siamo pronti a un’opera di profonda e reale nuova evangelizzazione, al servizio del Vangelo e, perciò, della verità sull’uomo”. Allora “non dobbiamo lasciarci condizionare o intimidire da chi non comprende il celibato e vorrebbe modificare la disciplina ecclesiastica, almeno aprendo delle fessure”. Al contrario, è la conclusione del cardinale Piacenza, dobbiamo recuperare la motivata consapevolezza che il nostro celibato sfida la mentalità del mondo, mettendo in crisi il suo secolarismo e il suo agnosticismo e gridando, nei secoli, che Dio c’è ed è presente”.

    Presentando il 12 aprile in Sala Stampa vaticana Youcat (“Sussidiario al Catechismo della Chiesa cattolica per i giovani”) il cardinale Stanislaw Rylko ha ricordato uno dei temi su cui il Santo Padre insiste molto, quello dell’ emergenza educativa in relazione in questo caso alle Giornate mondiali della Gioventù (GMG): “Si corre il rischio – ha detto il presidente del Pontificio Consiglio per i Laici – che l’evento della GMG scuota sì l’animo dei giovani, riscaldi i loro cuori, susciti emozioni forti e grandi entusiasmi, ma dopo si torna alle abitudini di sempre, dove talvolta sembra che non accada nulla di bello o importante e subentra inevitabilmente il grigiore del quotidiano…”. Perciò, ha continuato il sessantacinquenne porporato polacco, “non è sufficiente far sognare i giovani, ma occorre aiutarli a crescere con radici ben salde nell’humus della tradizione cristiana. (…) Una vera educazione alla fede dei giovani, dunque, deve cominciare proponendo Cristo alla loro libertà”. In questo senso Youcat è “un grande dono e un valido contributo allo scopo di rendere la fede dei giovani più salda, più fedele agli insegnamenti della Chiesa e più decisa nel condividere con gli altri le ragioni della propria speranza”.

    Alla stessa conferenza-stampa ha partecipato con funzione molto attiva anche il cardinale Christoph Schönborn, da presidente della Conferenza episcopale austriaca che ha assunto la responsabilità principale dell’opera, in accordo con le Conferenze episcopali tedesca e svizzera. Il sessantaseienne arcivescovo di Vienna ha ripercorso le tappe di quello che gli è parso una sorta di ‘miracolo’, nato da un’osservazione fatta in una conferenza-stampa legata alla GMG di Colonia del 2005: “Dov’è un catechismo che sia accessibile ai giovani? Anche il ‘Compendio’ è troppo difficile!” Da lì è partito tutto. Si è messo a disposizione l’editore Meuser e si è formato un gruppo allargatosi gradualmente a una cinquantina di giovani (“tutti appartenenti alla generazione che ha scelto di essere cristiana, vivendo come minoranza nella società, non come noi che abbiamo conosciuto ancora le messe domenicali piene di gente”), che hanno dibattuto tra loro molto seriamente, pienamente consapevoli della bellezza e della forza della fede. Benedetto XVI, ha osservato poi il cardinale Schönborn, si è interessato già dall’inizio per l’iniziativa, singolare già solo per il fatto che fin qui il catechismo era un prodotto di teologi. Il testo finale (lingua originale: tedesco) è stato poi sottoposto al vaglio della Congregazione per la Dottrina della Fede, che vi ha apportato alcune correzioni. Il porporato austriaco ha rievocato anche la questione della paternità giuridica di Youcat, affidata alla Conferenza episcopale austriaca (con il sostegno tedesco ed elvetico): in sintesi si è risposto così alla domanda se fosse più adeguato far pubblicare il catechismo giovanile dalla Libreria Editrice Vaticana o in sede di area regionale, pur con “apertura universale”.

    Spinosa la questione degli errori di traduzione, sfuggiti all’occhio di qualche garante linguistico. Nella versione italiana sono balzati all’occhio errori e ambiguità riferiti a risposte su temi delicatissimi come quelli della contraccezione (numero 420) e dell’eutanasia (numero 382). Qui, alla fine dell’ennesima domanda sull’argomento, il cardinale Schönborn ci ha tenuto a ribadire che la responsabilità di tali errori e ambiguità non può essere fatta risalire all’originale tedesco e dunque alla Conferenza episcopale austriaca, ma a chi avrebbe dovuto meglio ‘garantire’ la traduzione in altra lingua. In ogni caso la Congregazione per la Dottrina della Fede sta costituendo un gruppo per la correzione degli errori di traduzione (fin qui in italiano, ma si deve notare che l’edizione francese – ha rilevato sempre Schönborn - non è stata ancora pubblicata proprio per ragioni analoghe).

    Ha suscitato molto interesse anche massmediatico l’omelia – breve e incisiva - che il cardinale Dionigi Tettamanzi ha pronunciato per la Domenica delle Palme nel Duomo di Milano. Riandando all’entrata di Gesù a Gerusalemme ha osservato il settantasettenne porporato: “Il profeta Zaccaria, parlando per il suo tempo e per le attese dei suoi giorni, già aveva intuito quale sarebbe stato lo stile e il modo di presentarsi del Messia di Dio. Non con i cavalli da guerra, non con la forza delle armi, ma con la mansuetudine dell’asino, la bestia da soma dei giorni di pace, e con il dominio invincibile della giustizia”. Qui l’arcivescovo di Milano ha inserito alcune sue ‘inquietudini’ legate alla contemporaneità: “Qual è la nostra situazione storica ?– si è chiesto – Come sono oggi i giorni che viviamo?”. La risposta (“Potremmo definirli giorni strani. I più dotti potrebbero dirli giorni paradossali”) esige un chiarimento. Che giunge puntuale, anche senza la citazione di nomi e cognomi: “Perché ci sono uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come guerra le loro decisioni, le scelte e le azioni violente?”. Ancora: “Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni? E poi: “Perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei Paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?”

    Ne L’Osservatore Romano del 27 marzo, giorno in cui papa Benedetto XVI è andato in pellegrinaggio alle Fosse Ardeatine, il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo ha ricordato quanto successe il 24 marzo di sessantasette anni fa: in quella tragedia il porporato torinese perse infatti il padre, il colonnello Giuseppe, ucciso con altri 334 ostaggi dai tedeschi che ben lo conoscevano per aver trattato con loro il ‘cessate il fuoco’ dopo l’8 settembre. L’arciprete emerito di San Paolo fuori le Mura rievoca la clandestinità cui fu costretta la famiglia, dato che il padre – già capo della segreteria particolare di Pietro Badoglio – era divenuto il rappresentante del comando supremo del Sud per l’Italia occupata. Arrestato “in circostanze mai chiarite”, rinchiuso nella trista prigione di via Tasso,  il padre – che in un suo ordine aveva scritto: Nelle grandi città la gravità delle conseguenti rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia e dunque era contrario ad attentati come quello di via Rasella che provocò l’orribile reazione tedesca – fu portato con altri prigionieri prelevati sia da via Tasso che da Regina Coeli, insieme con molti ebrei, alle Fosse Ardeatine e lì ucciso. Nell’ultimo biglietto che era riuscito a far pervenire alla famiglia, ricorda il cardinale, il padre aveva scritto della madre: Non sapevo di amarla tanto e rimpiango solo lei e i figli. Confido in Dio. Però occorre aiutarsi. Io non posso che resistere e durare. Lo farò per quanto umanamente possibile.

    L’allora giovane Andrea (è nato nel 1925) partecipò con tanti altri parenti alla riesumazione e al riconoscimento degli assassinati: “Vedendo tutti quei corpi ammassati ho provato un senso di orrore e di pietà oltre ogni immaginazione che, dopo tutti questi anni, è rimasto in me. (…) Per quanto riguarda mio padre, sapevo da mia madre che indossava una camicia con le iniziali cucite sul petto. Poi ho riconosciuto l’anello nuziale”.  Nella seconda parte dell’intervista il cardinale Cordero Lanza di Montezemolo definisce tra l’altro la sua partecipazione volontaria alla Guerra di liberazione come un “giusto contributo al bene della Patria” e rileva l’importanza delle Fosse Ardeatine anche nella prospettiva delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia: “Il valore della memoria consiste nell’imparare l’essenziale dalle generazioni che ci hanno preceduto: fare nostro ciò che ci insegna la storia e stare attenti a non ripetere gli errori del passato. Purtroppo nelle guerre di fatti simili ce ne sono stati. Tanti. Persino con un numero maggiore di vittime. Ognuno di questi crimini è una pagina di storia che parla, particolarmente alle nuove generazioni”.  Il cardinale in questi giorni ha visitato anche la prigione di via Tasso: “A via Tasso ho rivissuto, interiormente, la prigionia di mio padre e i suoi ultimi cinquantotto giorni di vita passati in detenzione. Ho avvertito la consapevolezza che, se il Signore ha permesso una tragedia così inumana, saprà tirarne fuori beni maggiori. Per me, lo confesso, è stata un’esperienza dura visitare i locali dell’edificio che, nei nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, venne utilizzato come carcere dal comando della polizia di sicurezza”.  

    Per il settantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale (avvenuta il 12 aprile del 1941) il cardinale Giovanni Canestri ha ricevuto un bel regalo: domenica 10 aprile è andato a trovarlo papa Benedetto XVI, accompagnato dal cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano. Quest’anno per il porporato piemontese novantaduenne è un anno di giubilei, dato che il 30 luglio festeggerà anche il cinquantesimo dell’ordinazione episcopale. Cardinale dal 1988, Giovanni Canestri è stato successivamente vescovo ausiliare di Roma, vescovo di Tortona, vice gerente di Roma, arcivescovo di Cagliari (1984-1987), arcivescovo di Genova (1987-1995). 

    Un altro incontro recente di papa Benedetto XVI ha suscitato interesse: quello con il cardinale Carlo Maria Martini, avvenuto sabato 9 aprile in Vaticano e durato mezz’ora. Era dall’8 novembre del 2009 (visita pastorale del Pontefice a Brescia) che non si vedevano, anche per le precarie condizioni di salute dell’eminente gesuita, afflitto da anni dal morbo di Parkinson. Si può presumere che l’incontro tra papa Ratzinger e il suo coetaneo arcivescovo emerito di Milano sia stato umanamente commovente e, nei contenuti, abbia in qualche modo toccato anche il tema del successore del cardinale Tettamanzi sulla cattedra di Sant’Ambrogio.  

    Il primo aprile si è spento il cardinale indiano Varkey Vithayathil. Nato 83 anni fa a Paravur, entrato a vent’anni tra i redentoristi, era arcivescovo maggiore di Ernakulam-Angamaly dei siro-malabaresi. Creato cardinale nel 2001 da Giovanni Paolo II, è stato presidente della Conferenza episcopale indiana dal 2008 al 2010. Laureato in diritto canonico all’ Angelicum, viene ricordato per la sua tenacia nello stimolare la comunione all’interno della Chiesa siro-malabarese (una Chiesa apostolica di rito orientale, risalente secondo la tradizione alla predicazione dell’apostolo san Tommaso e composta di circa quattro milioni di fedeli che vivono in buona parte nello Stato indiano del Kerala), ma anche con il resto dell’episcopato indiano e con Roma. Oggi la Chiesa siro-malabarese conosce molte vocazioni e si caratterizza ormai per un forte spirito missionario.

    Il 18 aprile è invece deceduto il cardinale Giovanni Saldarini, che è stato arcivescovo di Torino dal 1989 al 1999, successore di Anastasio Ballestrero  e predecessore di Severino Poletto. L’ottantaseienne porporato, nato a Cantù, era stato consacrato vescovo ausiliare di Milano dal cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini nel 1984 e aveva ricevuto la porpora nel 1991. Sei anni dopo, nella notte tra l’11 e il 12 aprile gli toccò assistere al rogo della Cappella del Guarini (ma la Sindone si salvò). Nel 1993 ospitò a Torino la Settimana sociale dei cattolici italiani. Vicepresidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), in un forte intervento durante il Convegno ecclesiale nazionale di Palermo del 1995 rilevò che il ruolo dei cattolici non poteva ridursi a quello di “infermieri della storia”. 

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