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    INTERVISTA A GUZMAN CARRIQUIRY

    INTERVISTA AL PROFESSOR GUZMAN CARRIQUIRY - 'IL CONSULENTE RE ONLINE' DI MARZO 2011

    Il Bicentenario dell'America latina tra realtà e speranza

     

    Il contesto storico del Bicentenario. Lo sviluppo del cammino politico ed economico. La Chiesa cattolica nell’America latina determinante in larga misura  per il destino della Chiesa universale

     

    Lo avevamo intervistato per “Il Consulente RE” nel febbraio 2004, poco dopo l’uscita del suo saggio intitolato “Una scommessa per l’America latina”. In quell’occasione (vedi ‘Archivio storico’ della rubrica ‘Conversando’) il professor Guzman Carriquiry, uruguayano da quasi quarant’anni a Roma, aveva illustrato la configurazione di quella che è chiamata ‘America latina’, ne aveva individuato le caratteristiche, aveva parlato dei rapporti con il grande vicino del Nord, aveva prefigurato rapporti economici intra-americani più intensi,  per poi concludere con un’ampia parte dedicata alla presenza cattolica nel continente. A sette anni di distanza abbiamo re-incontrato il sottosegretario (da ormai vent’anni) del Pontificio Consiglio per i laici per chiedergli di analizzare come l’America latina sta festeggiando il Bicentenario dell’indipendenza. Il professor Carriquiry ha così avuto dapprima di precisare il contesto storico relativo all’avvenimento, evidenziando anche il ruolo del libertador Simon Bolivar; successivamente ha riflettuto sul bilancio delle lotte indipendentiste e ha commentato i progressi fatti nell’integrazione economica del continente. Come nell’intervista del 2004 la parte finale, assai sostanziosa, è dedicata ai rapporti odierni tra Chiesa cattolica e America latina, con una conclusione riguardante la ‘teologia della liberazione’. Sull’argomento è in uscita per aprile il saggio del professor Carriquiry intitolato “El Bicentenario de la Independencia de los Paises latino-americanos: ayer y hoy”, Ediciones Encuentros Madrid (prima dell’estate uscirà anche negli Stati Uniti e in Brasile).

     

    Professor Carriquiry, in alcuni Stati dell'America latina sono incominciate nel 2010 le celebrazioni per il Bicentenario dell'indipendenza dalla Spagna. Incominciate, poiché in realtà il Bicentenario non è riducibile al solo 2010: in alcuni Stati il Bicentenario dell'indipendenza definitiva verrà festeggiato solo tra un quindicennio…

     

    Infatti dal 2010 le celebrazioni del Bicentenario dell'indipendenza sono nell'agenda di tutti i Paesi latino-americani. In realtà, la prima indipendenza è quella di Haiti, nel 1804, dove i moti all’insegna di "liberté, égalité, fraternité" non sembravano avere validità per i negri e i mulatti schiavi nella colonia francese. E come non ricordare l'indipendenza di Cuba nel 1898?. Inoltre, ci sono ancora possedimenti coloniali nelle Antille e nelle isole Malvine.

     

    È vero però che i processi di indipendenza nella terraferma, dal Messico al Cono Sud (che comprende i Paesi al disotto del Tropico del Capricorno, per intero Argentina, Cile, Uruguay, parzialmente Paraguay e Brasile meridionale) si sviluppano dal 1810 al 1824. Però anche dentro questo processo le date sono molto diversificate. Molti Paesi hanno già festeggiato, in modo anticipato, il Bicentenario, senza concordanze con le date storiche reali dell'indipendenza. Ci sono coloro che in Bolivia e in Ecuador pretendono che l'indipendenza sia incominciata in questi Paesi nel 1809, ma non è così: l'Ecuador è diventato indipendente nel 1820 e la Bolivia nel 1824, grazie agli eserciti bolivariani. Cile e Argentina hanno celebrato il Bicentenario nel 2010, ma l'indipendenza del primo è del 1816 e della seconda nel 1817. Il Messico lo ha fatto nel 2010 ma la sua vera indipendenza si ha nel 1820. Potremmo continuare ancora...

     

    In ogni caso, al di là delle giuste precisazioni storiche: che significato hanno globalmente i festeggiamenti?

     

     

     

    Il Bicentenario dell'Indipendenza appare come avvenimento rilevante, carico di forti contenuti simbolici, che pone i Paesi latino-americani di fronte al loro passato, al loro presente e al loro futuro. È un’ottima opportunità per ripensare a fondo il cammino storico dell'America Latina e per suscitare un dibattito aperto sulle maggiori sfide, su priorità e compiti da considerare nella costruzione di un avvenire degno.

     

    Da quel che sappiamo però nei festeggiamenti promossi in diversi Stati, in particolare quelli con regimi incertamente democratici, sta prevalendo una retorica molto populistica…

     

    Certo, non mancano le tentazioni di sprecare questa opportunità. Il Bicentenario non deve ridursi a tornei di oratoria, a omaggi convenzionali, a retorica patriottica pervasa di pomposità e di formalismi; nemmeno deve essere utilizzato per il lancio di slogan ideologici e per il rilancio della  tanto anacronistica "leggenda nera". Non si può neanche festeggiare l'indipendenza del proprio Paese senza tener conto che quella fu un’impresa "americana", che non può essere compresa dentro le frontiere dei diversi Stati. Inoltre, è importante tener presente molti studi storiografici che sono stati pubblicati negli ultimi decenni e oltrepassano i limiti ideologici delle categorie e i paradigmi della storiografia classica liberale della fine del XIX secolo, diventata vulgata in tanti manuali scolastici e in parecchi festeggiamenti ufficiali.

     

    Quanto l’indipendenza fu grande movimento di popolo latino-americano?

     

    Di fronte all'invasione napoleonica della Spagna e all’ abdicazione di re Ferdinando VII, ci furono alcuni settori di élite degli spagnoli americani che costituirono le "juntas" di auto-governo, attorno al 1810, attribuendosi l'esercizio della sovranità. Essi si sentivano sfuggire le cariche pubbliche e sentivano lesi i loro interessi da ciò che rimaneva del monopolio commerciale spagnolo. Non c'era ancora in loro, ad eccezione di alcune poche personalità americane, un maturo sentimento e un obiettivo indipendentista. I primi anni di guerra contro le burocrazie e gli eserciti fedeli alla Corona spagnola in America furono vere e proprie guerre civili. Contro la fronda aristocratica, i realisti incorporarono nelle file dei loro eserciti i settori diseredati della popolazione. Numerosi indigeni, mulatti e mettici poveri combatterono con gli spagnoli contro i ribelli "creoli". Le vittorie degli eserciti rivoluzionari si registrano a partire dal 1816, quando Simón Bolívar, dal nord, e José de San Martín, dal sud, riescono ad incorporare vasti settori popolari nei loro eserciti: è a quel momento che il processo indipendentista divenne vera impresa di popoli.

     

    Nel Messico però il popolo si era sollevato già prima…

     

    Sì, nel Messico, dal 1810, il processo rivoluzionario è un vero sollevamento popolare di contadini e indigeni sotto lo stendardo di Nostra Signora di Guadalupe, capeggiato successivamente da due parroci, prima da Hidalgo e dopo da Morelos. Queste insurrezioni popolari furono sconfitte dall'alleanza tra spagnoli e creoli atterriti di fronte a ciò che disprezzavano come "orde barbare". L'indipendenza del Messico fu dichiarata nel 1820 come reazione al colpo militare liberale del generale Riego in Spagna nel 1820. C'è un detto in Messico che così suona: "La conquista fu fatta dagli indios e l'indipendenza dagli spagnoli".

     

    Un po’ diversi gli avvenimenti nel Brasile portoghese…

     

    Occupato il Portogallo dalle truppe napoleoniche, la monarchia e la corte portoghese si rifugiano a Rio di Janeiro, sotto la protezione inglese, e stabiliscono in questa città la capitale dell'Impero. Quando le truppe napoleoniche si ritirano, e il parlamento portoghese esige che il monarca ritorni a Lisbona, questi nomina reggente suo figlio, don Pedro, che impianta nel Brasile una monarchia indipendente. Non ci furono lunghe ed estenuanti guerre di indipendenza come nell'America ispanica, perché il potere politico e militare portoghese era debole, senza nessuna capacità di controllo sull'immenso territorio. Le rivoluzioni ispano­americane e quella brasiliana ebbero scarsi contatti, ma, grazie a Dio, dopo 200 anni uno dei fattori fondamentali dell'odierno scenario latinoamericano è il continuo intensificarsi dei legami economici, politici e culturali tra il Brasile e gli Stati ispano­americani. Spesso ripeto che senza il Brasile non sarebbe possibile niente di latinoamericano, ma il Brasile è solo uno dei volti dell'America Latina, che ritrova ai vertici lo stesso Brasile, il Messico e il Cono Sud.

     

    Quale ruolo assunse in quegli avvenimenti il già citato libertador  Simón Bolívar? Perché Bolívar è diventato un mito? Resiste ancora oggi?

     

    Simón Bolívar, caraqueño americano, è la figura più grande e la personalità più proteiforme e affascinante tra i libertadores americani. Da ambizioso e arrogante giovane aristocratico diventa, col passare degli anni e dopo molte sconfitte e ripensamenti, un autentico capopopolo, uno stratega della lotta indipendentista, uno dei pochi che cerca di riflettere a fondo sulla costituzione e sull'avvenire dei nuovi Stati. La figura di Bolívar è legata all'indipendenza del Venezuela, della Colombia, dell'Equatore, del Perú e della Bolivia. Il libertador ha uno sguardo appassionato che abbraccia tutta l'America ispanica e che persino si interessa di stabilire legami con l'America lusitana. Sogna di formare dell'America liberata "una grande nazione", una confederazione, una "nazione di repubbliche". Passa da una mentalità di un certo deismo illuminista ad un avvicinamento alla Chiesa cattolica. Per noi latino-americani non è un "mito", è un "grande" latinoamericano.

     

    Però nella realtà finì la vita in solitudine…

     

    Certo è interessante tener presente che tutti i grandi eroi dell'indipendenza americana finiscono per essere ripudiati, assassinati, esiliati. L'eroe dell'indipendenza della Provincia Orientale dell'Uruguay, José Artigas, è costretto a lunghi anni di esilio nel Paraguay; José de San Martín è assediato dall'oligarchia peruviana, deve lasciare il Cile da lui stesso liberato e, non potendo soffrire le meschinità del governo di Buenos Aires, finisce per esiliarsi in Francia, dove muore solo e abbandonato; il Generale Sucre, luogotenente di Bolivar, liberatore della Bolivia, il vincitore della battaglia finale di Ayacucho (1824) è assassinato; Hidalgo e Morelos sono assassinati nel Messico; Morazan, fondatore dell'Unione Centroamericana, è pure assassinato. E, infine, Bolivar muore solo, abbandonato, amareggiato, dopo essere stato vittima di innumerevoli tradimenti, calunnie e tentativi di assassinio. Molte di queste grandi personalità vengono "ricuperate" nella fase di riorganizzazione degli Stati nazionali, verso la fine del XIX secolo, per essere allora collocate sugli altari degli "eroi nazionali", spesso idealizzati e modellati per fungere da simboli dell'unità nazionale.

     

    La Chiesa cattolica ebbe un ruolo nelle vicende dell’indipendenza? Quale?

     

    L’indipendenza latinoamericana non fu segnata dalle tendenze anticlericali che caratterizzarono la Rivoluzione francese. “Siamo più religiosi degli europei”, diceva Morelos. Le guerre d’indipendenza divisero la cristianità latinoamericana. La maggior parte dei Vescovi, scelti dalla monarchia spagnola e assoggettati al patronato regio, appoggiarono la causa realista, mentre al contrario numerosi sacerdoti e religiosi aderirono a quella patriottica. Ci furono sacerdoti nei Congressi costituenti, altri che furono cappellani delle truppe rivoluzionarie, altri ancora che agirono come segretari e assistenti dei dirigenti rivoluzionari. Le guerre dell’indipendenza trovarono comunque una Chiesa indebolita sia dal potere regalista e neo-giansenista dei Borboni che a causa dell’iniqua espulsione dei gesuiti. Le lunghe guerre dell’indipendenza provocarono uno smantellamento di tutta l’organizzazione ecclesiastica nelle diocesi: mi riferisco qui a conventi, seminari, opere di catechesi e di carità. Inoltre molti dirigenti delle nuove Repubbliche pretesero di essere gli eredi del patronato regio e imposero pesanti limiti all’azione della Chiesa, a volte perseguitandola. Nonostante ciò, la tradizione cristiana continuò a trasmettersi oralmente, dalla madre ai figli, e grazie alla persistenza della pietà popolare, pur essendo impoverita dal fatto della mancanza di cura pastorale e catechetica.

     

    Bisogna aggiungere che i principali dirigenti nelle lotte per l’indipendenza, cominciando dallo stesso Bolivar, si mostrarono sempre interessati a stabilire rapporti diretti con la Santa Sede, cosa che favorirà che la riorganizzazione ecclesiastica promossa successivamente da Roma nei nuovi Paesi indipendenti.  

     

    Professor Carriquiry, l’ indipendenza dalla Spagna portò a un effettivo miglioramento delle condizioni di vita e del clima sociale dei Paesi liberati?

     

     

     

    Nel gennaio del 1830, quattro mesi prima delle sue dimissioni, Bolívar affermava amaramente nel Congresso colombiano: "Io arrossisco nel dire che l'indipendenza è l'unico bene che abbiamo acquisito a spese di tutti gli altri". Tale affermazione potrebbe anche essere interpretata come l’ammissione di non aver saputo o potuto creare le condizioni per un'autentica indipendenza. Quali i costi nei decenni dopo l'indipendenza? L'indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo favorì la dipendenza neo-coloniale dall’ Impero inglese; la militarizzazione e la violenza continuarono a segnare tutta la vita civile; furono costituite delle "polis oligarchiche" con istituzioni politiche di grande fragilità e senza nessuna partecipazione popolare che non fosse quella incarnata nelle milizie disordinate e sempre ribelli del caudillismo. Inoltre, non cambiarono le condizioni economiche e sociali dei settori popolari; anzi, le condizioni delle comunità indigene peggiorarono brutalmente. Infine, mentre le 13 colonie del Nord si espandevano verso il Pacifico e riuscivano, dopo la guerra di Secessione, a costituire gli Stati Uniti d’America, la disintegrazione dell'Impero spagnolo dava luogo alla cosiddetta "balcanizzazione" ispanoamericana, con la frammentazione in una quindicina di Stati "parrocchiali", disuniti e assai impotenti.

     

    Il processo di indipendenza incominciato un paio di secoli fa si è oggi pienamente realizzato? Se no, quanto resta da fare? Particolarmente in quali ambiti?

     

    Festeggiare il Bicentenario è una preziosa occasione per riflettere sulle condizioni richieste per una vera indipendenza all'altezza del nostro tempo, cioè nel quadro delle condizioni di sviluppo, interdipendenza e globalizzazione contemporanee. Essere indipendenti oggi significa poter dipendere più dal proprio governo, dalle proprie risorse, dai propri interessi e dai propri ideali che dalle grandi potenze e dalla cultura globale dominante. L’America Latina sta vivendo, da sei anni, un processo impressionante di crescita economica, grazie soprattutto agli alti prezzi dei prodotti agro-alimentari, minerali ed energetici nel mercato mondiale. Quanto resta da fare? Restano da garantire uno sviluppo auto-sostenuto e un sapiente investimento per modernizzare tutti i settori dell'economia. Resta da saper combinare adeguatamente questa crescita economica con una maggiore equità, superando scandalose disuguaglianze. Resta da proseguire con maggiore determinazione l'odierno processo di inclusioni di vasti settori popolari marginali in migliori livelli di scolarità, nel mondo del lavoro e nella partecipazione alla cosa pubblica. Resta da saper valorizzare al massimo il nostro capitale umano. Resta da riuscire a configurare una maggiore coesione sociale e una maggiore sicurezza civile. Resta da consolidare e approfondire il lungo corso di più di tre decenni di regimi democratici - basti guardare agli esempi virtuosi del Brasile, del Cile, dell'Uruguay, della Costa Rica, tra altri -, favorendo anche una pacifica transizione a Cuba e fermando o almeno moderando ovunque qualsiasi deriva autocratica. Resta infine da riaffermare l'identità cattolica popolare dell'America Latina per non essere travolti e assimilati dai poteri omologanti della globalizzazione.

     

    Professor Carriquiry, nell'intervista (vedi ‘Archivio storico’ della rubrica ‘Conversando’) che Lei ci rilasciò sette anni fa, qualche tempo dopo l'uscita del Suo saggio "Una scommessa per l'America latina", Lei rilevava che "non è utopico pensare ormai a una grande area di liberalizzazione del mercato nell'America del Sud, preludio a un mercato comune ossia ad una confederazione sudamericana". Sono stati fatti passi avanti in questo senso? Quali gli ostacoli esistenti?

     

    Sono stati fatti passi di grande importanza. Oggi gli scambi commerciali e di capitali tra i Paesi latinoamericani (fino a 30 anni fa insignificanti) sono cresciuti a un ritmo molto intenso. Il MERCOSUR (che vede come Stati membri Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay e come Stati associati Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Perù e forse domani il Venezuela) ha favorito questi scambi nonostante sembri oggi alquanto congelato e bisognoso di un rilancio in grande stile. Crescono le opere di comunicazione fisica ed energetica tra i diversi Paesi. Si è creata una densa rete di rapporti politici tra i Paesi della regione, nonostante molti antagonismi e tensioni. Si è costituita 1'UNASUR, l'Unione dell'America del Sur (che unisce MERCOSUR e Comunità dell’America andina). C'è oggi una accresciuta consapevolezza della vocazione e del destino comune dei Paesi latinoamericani. Ciò che in Bolívar era di fatto un'utopia oggi segue un corso a zig-zag, in mezzo a grandi ostacoli, ma già comincia ad essere realtà corposa, bisognosa di una maggiore consapevolezza e partecipazione a livello dei popoli e di una anche maggiore lungimiranza e determinazione da parte dei ceti dirigenti. L’integrazione dell’America Latina è una questione decisiva. Frammentati, dispersi, non andiamo da nessuna parte.

     

    Sono cambiati i rapporti tra gli Stati Uniti e l'America latina con la presidenza Obama? Se sì, in quale senso? Ci sono fatti concreti?

     

    C'è una maggiore distensione nei rapporti inter-americani. Le denunce contro l'imperialismo yankee non sono tanto forti e frequenti, ad eccezione di quelle dei vociferanti di sempre. Ma oggettivamente i rapporti non sono molto cambiati con la presidenza Obama. Anzi, gli Stati Uniti non considerano l'America Latina tra le loro priorità strategiche, se non in relazione con il narcotraffico e l'immigrazione ispanica. Agli Stati Uniti importano in primo luogo i rapporti con Messico e con il Brasile. Con la crisi economica, gli interessi protezionisti nord-americani hanno frenato gli slanci e gli accordi di liberalizzazione commerciale dell'era Bush. In genere, l'amministrazione americana sembra perplessa, disorientata e mancante di una vera e propria strategia riguardo all'odierna situazione latinoamericana. Da parte latinoamericana abbiamo acquistato maggiore consistenza e autonomia e si sono moltiplicati i nostri interlocutori politici e ed economici. 

     

    Professor Carriquiry, sempre nell'intervista del 2004 Lei osservava, riferendosi al Brasile, che ci sono grandi “segni di speranza" e "ciò che accadrà nel Brasile sarò decisivo non solo per i brasiliani". Giunti alla fine della presidenza Lula, Lei può farne un bilancio in tal senso?

     

     

     

    Il futuro del Brasile è fondamentale per tutta l'America Latina. Esso è il nostro Paese leader. Ciò esige dal Brasile grande capacità di lungimiranza, di solidarietà e anche di alcuni sacrifici per favorire la crescita dell'insieme. Il Brasile sarà fra alcuni anni la quinta potenza economica del mondo. La presidenza Lula ha favorito una grande crescita economica e sociale del Paese, con forte proiezione nella scena mondiale, nel mercato globalizzato e nei rapporti latinoamericani. Si è ridotta considerevolmente la povertà. I brasiliani hanno confermato, con il loro alto consenso, un giudizio positivo sulla sua presidenza. Certo, i problemi che ancora deve affrontare il Paese sono enormi, ma c'è nei brasiliani un forte slancio di speranza in un futuro migliore. Adesso bisognerà evitare i rischi bipolari del tecnocraticismo burocratico e dell'ideologizzazione nella conduzione del Paese. Si richiederà di non affidarsi soltanto alle leve del potere statale e del mercato ma di valorizzare il capitale umano e sociale del popolo brasiliano come soggetto della costruzione della nazione. Si deve curare non soltanto l’economia e la politica ma tutto ciò che fa crescere un popolo in dignità e responsabilità, mosso da “senso” e ideali.  Preoccupa che per darsi una patina di sedicente "progressismo" ci sia la tentazione di favorire i sotto-prodotti culturali del relativismo e dell'edonismo, di quella cultura decadente e regressiva che tende a disgregare l'ethos dei nostri popoli (si pensi che ancora il 73% dei brasiliani si sono dichiarati contrari alla liberalizzazione dell'aborto!).

     

    A proposito del legame tra Chiesa cattolica e America latina Lei notava quanto segue: "Più della metà dei battezzati sono oggi latino-americani... e dunque si può ben dire che il destino della Chiesa cattolica non è disgiunto da quello dell'America latina". Lei conferma oggi tale affermazione?

     

     

     

    Certo che la confermo! Quasi la metà dei battezzati sono latino-americani - possiamo sommare gli ispanici che fanno crescere alla Chiesa cattolica negli Stati Uniti - e questo rende evidente che, almeno per i prossimi decenni, il destino della cattolicità è in grande misura in gioco nell'America Latina. Il Papa Benedetto XVI ha fatto questa stessa affermazione nella conversazione con i giornalisti nel volo che lo portava verso San Paolo. Purtroppo molti non si rendono conto di ciò. Non si rendono conto che la "silenziosa apostasia di massa" che si diffonde in Europa e il congedarsi dell'Europa di un ruolo centrale nella scena contemporanea, dovrebbe portare a prestare molta maggiore attenzione, ad avere una vicinanza maggiore anche negli aspetti pastorali alla Chiesa che è in America Latina.

     

    Poco più oltre nell'intervista del 2004 Lei rilevava: "Nel continente la tradizione cattolica è sottomessa ormai a una grande prova e spesso si ritrova assai indebolita". In questi ultimi anni, soprattutto su vita e famiglia, gli `strappi' legislativi sono stati numerosi in diversi Paesi. Si può concludere che oggi il cattolicesimo in America latina si è ulteriormente indebolito anche rispetto ai primi anni del Terzo Millennio?

     

    E' molto difficile poter dare una risposta in questo senso. Ancora regge la tradizione cattolica dei nostri popoli: ancora più del 80% è battezzato secondo i crismi della Chiesa cattolica ed essa gode, come indicano tanti sondaggi ed inchieste sociologiche, del più alto livello popolare di consenso, di fiducia e di credibilità  nella stragrande maggioranza dei nostri Paesi. La pietà popolare è ancora fiorente. C'è un’anima naturalmente cristiana tra i latinoamericani. Recenti studi hanno segnalato che dal 1960 al 2000 la Chiesa cattolica ha perso un 20% di brasiliani che già non si dicono più cattolici, e tuttavia in questi primi dieci anni del 2000 si avverte una certa tendenza alla stagnazione nella capacità di proselitismo delle comunità evangeliche e neopentecostali, nonché delle varie sette, e una tenue ma suggestiva tendenza di ritorno alla Chiesa cattolica.

     

    Lei ha citato le sette… un pericolo grande?

     

     

     

    Non credo che siano le sette la nostra maggiore sfida. Esse crescono dove la Chiesa cattolica è assente o auto-secolarizzata. Il maggiore nemico è l'insidia relativista della cultura globale, che si propaga attraverso potentissimi mezzi di comunicazione e di pressione, dove l'ateismo messianico è stato sostituito dall'ateismo libertino di massa. Grande segno di speranza per l'America Latina, per la Chiesa in America Latina, è stata la V Conferenza Generale dell'Episcopato latinoamericano in Aparecida. Il suo documento finale è un ottimo programma tutto centrato sulla questione essenziale: la formazione e la missione dei discepoli e testimoni del Signore per essere protagonisti di vita nuova, di vera vita, in America Latina. Bisognerebbe poter valutare ciò che sta avvenendo grazie alla missione continentale che si sviluppa da Aparecida.

     

    Concludiamo con la teologia della liberazione: nel 2004 Lei annotava che "la tematica non è più tra quelle oggi prioritarie". E' però di poche settimane fa la nomina a prefetto della Congregazione degli istituti di vita consacrata di quel che appare un estimatore dei fondamenti, depurati dall'ideologia marxista, di tale teologia: mi riferisco ai contenuti dell'intervista che "L'Osservatore Romano" ha fatto all'arcivescovo brasiliano Joao Braz de Aviz, apparsa il 2 febbraio. Insomma la questione è ancora ben attuale?

     

    Nella Conferenza di Aparecida non c'è stato il minimo dibattito esplicito sul tema della teologia della liberazione. Cosa vuol dire questo? Che essa è morta? No, è stata sepolta la carica ideologica che ha accompagnato nel suo percorso la teologia della liberazione. Oggi il marxismo è un pallido fantasma vagabondo che agita soltanto ristrettissime minoranze in ambienti ideologicamente inquinati. Però le valide e profetiche intuizioni che sono state all'origine della teologia della liberazione, vagliate con il discernimento e sedimentate nel magistero della Chiesa, sono molto presenti in tutto il documento di Aparecida. I poveri ci continuano a mostrare, più che mai, il volto di Cristo, condividendo la sua sofferenza, ponendo la fiducia in Dio - il loro unico tesoro -, in attesa di una liberazione che solo la Risurrezione del Signore porta a pienezza e che si intravede - anche se ambiguamente - nei gesti di amore, nelle opere di solidarietà, nei sentimenti di fraternità e nello svilupparsi di un maggiore rispetto della persona e di una maggiore giustizia nella vita dei popoli.

     

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