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    IL GRIDO DELLA PACE DI ANDREA RICCARDI

    IL GRIDO DELLA PACE DI ANDREA RICCARDI – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 8 luglio 2023

     

    Presentato martedì 4 luglio 2023  a Roma “Il grido della pace” di Andrea Riccardi, uno strumento utile per riflettere sulla guerra, sempre più riabilitata in sede politica, con un’opinione pubblica in parte narcotizzata sul tema.. Necessario recuperare la memoria storica, così da riconquistare il senso dell’orrore per i conflitti armati. Ne hanno parlato a Sant’Egidio Marco Impagliazzo, Marco Damilano, Giuseppe De Rita, Donatella Di Cesare, Matteo Maria Zuppi e l’autore.

    Coltivare la memoria attraverso lo studio della storia al fine di continuare a provare quell’orrore per la guerra che ai nostri giorni si è assai stemperato nella nostra società. Si veda il dilagare irresponsabile, a volte servile, di discorsi bellicisti cui non riesce a opporsi incisivamente un’opinione pubblica confusa per il bailamme di notizie pilotate provenienti dai fronti di conflitto e narcotizzata da un senso di impotenza che porta fatalmente alla rassegnazione. Coltivare la memoria significa anche rifuggire dalle facili semplificazioni, dal manicheismo che contrappone virginei buoni e diabolici cattivi, dalle pur comprensibili emozioni indotte dalla cruda cronaca di ciò che di orribile accade in ogni guerra (e su ambo i fronti). E’ lo studio della storia profonda che rende consapevoli della brutalità della guerra e anche spesso della sua inutilità. Come scriveva un fante italiano nel 1918: “Si chiama guerra perché si finisce sotto terra”. E’ lo studio della storia profonda che convince della necessità di imboccare, sempre e comunque, la via spesso molto stretta della ricerca di una pace certo secondo giustizia, ma intesa in primo luogo come cessazione del fragore mortifero dei combattimenti.

    Tutto questo vuol suggerire nella sostanza l’ultimo libro di Andrea Riccardi, “Il grido della pace” (edizioni San Paolo), presentato a Roma nel tardo pomeriggio di martedì 4 luglio. Grande l’attesa, tanto è vero che il salone di via della Paglia 14b non è riuscito a contenere i circa 250 presenti, tra i quali gli ambasciatori presso la Santa Sede di Italia, Ungheria, Regno Unito e Cipro.

    Nel volume - che Riccardi ha voluto pubblicare proprio in questi giorni sospesi riguardo agli sviluppi della situazione in Ucraina tra gravi timori di un ulteriore appesantimento del conflitto (vedi armi USA a grappolo fornite a Zelensky) e timidi spiragli di ottimismo (grazie in particolare alle ‘missioni’ vaticane) – si succedono, dopo l’introduzione dell’autore stesso, dodici capitoli. Il titolo del secondo condensa il messaggio che Riccardi intende lanciare: “Memoria della guerra, speranza della pace”. Ce ne sono poi di dedicati tra l’altro al “male della Shoah e alla resistenza dei giusti”, ai cristiani in prospettiva europea, al dialogo interreligioso e a quello ecumenico, alla figura di Giorgio La Pira (un bel ritratto), alla bandiera italiana (“simbolo di una comunità di destino”) e i due conclusivi in cui si parla di “comunità” (“dall’io al noi”) e di “visioni”. 230 le pagine, di bella leggibilità, come è consueto per i libri del presidente della ‘Dante Alighieri’ (vedi anche ad esempio https://www.rossoporpora.org/rubriche/cultura/1010-la-chiesa-brucia-le-sorprese-di-andrea-riccardi.html ).

    A presentare il libro (di cui alla fine della cronaca offriremo qualche scampolo), moderati da Marco Impagliazzo (presidente della Comunità di Sant’Egidio ), il giornalista Marco Damilano, il sociologo Giuseppe De Rita, la filosofa Donatella Di Cesare, il cardinale Matteo Maria Zuppi.

    Dopo il saluto di don Antonio Rizzolo (Edizioni San Paolo), Marco Impagliazzo ha introdotto la serata evidenziando come lo scrivere possa trasformarsi in “un atto di resistenza al male”. E’ questo il caso del testo di Riccardi. Il presidente di Sant’Egidio ha difeso anche l’idea prospettata dalla Comunità per considerare Kiev “città aperta”: “Non sarebbe un atto di resa, ma un atto di rispetto per una città santa, dove nel 982 è avvenuto il battesimo della Ru’s”. Un’idea analoga aveva già riguardato la sventurata Aleppo (in una Siria molto amata da Riccardi), ma senza successo.

     

    MARCO DAMILANO, GIUSEPPE DE RITA E DONATELLA DI CESARE

    Marco Damilano si è detto impressionato dal libro fin dal titolo, precisamente dal termine “grido”, preghiera degli oppressi. A tale proposito Giuseppe De Rita ha espresso un parere diverso: “Il grido porta alla guerra, è un’affermazione di sé stessi. Meglio invece le voci di pace, che sono ben presenti nel libro, tanti modi diversi di riflettere su guerra e pace”. Insomma “sul grido ci si mobilita, non ci si può lavorare; sulle voci sì”.

    Torniamo a Damilano che ha voluto attualizzare una citazione del novembre 1940 di Angelo Giuseppe Roncalli, allora delegato apostolico in Turchia e in Grecia, relativa al Salmo 50 (“Liberaci, Signore, dalle azioni sanguinose”):Il sentimento dell’amor patrio (…) è legittimo e può essere santo: ma può degenerare in un nazionalismo (…) malsano”, che “sulla base di razza e sangue intossica il mondo”. Era il novembre 1940, non certo il luglio 2023, come ha voluto dare a intendere Damilano. Già si leggeva in Roncalli, però - e si è letto ripetutamente anche in Karol Wojtyla - che bisogna saper distinguere ad esempio tra patriottismo e nazionalismo. Il primo è un amore naturale e anche appassionato per la propria patria, le proprie radici, un ‘noi’ di una comunità che è però aperta agli apporti del mondo. Il secondo invece è il trionfo dell’ego di comunità, che si sente superiore e diffida e rifiuta l’apporto di ciò che sta al di là delle frontiere nazionali  (vedi anche  https://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/788-karol-wojtyla-patriottismo-nazionalismo-e-molto-altro.html ). Del resto non a caso Riccardi ha dedicato un capitolo del libro alla ‘bandiera’: “Guardare alla bandiera vuol dire guardare all’Italia, alla sua storia millenaria, come nazione, regione geografica, cultural-linguistica”.

    Giuseppe De Rita, del cui intervento abbiamo già ricordato l’incipit, ha colto tra le ‘voci’ citate nell’opera quella dello storico Paolo Prodi, convinto che mai niente è stato stabile nella complessa storia moderna europea. Con altre parole, ha rilevato De Rita, “la storia umana (non solo europea) è vivere l’insicurezza”, con “il suo prezzo da pagare e i momenti belli da godere”. Per il fondatore del Censis il male espresso nella nostra società si concretizza nella “morte del prossimo” e nella “riduzione della capacità di fare comunità”, vivendo le “emozioni del momento”. E “il grido è contro l’odio”. Per De Rita oggi ci si deve affidare nuovamente, come nei momenti bui, alla Madonna, tornando a un momento comunitario in dimensione religiosa. Che è poi la dimensione che storiograficamente sta al fondo dei rapporti tra Kiev e Mosca. E va recuperat

    Il libro di Riccardi, ha osservato poi la filosofa Donatella Di Cesare,esprime lo sconcerto provato da tanti di noi per la guerra in Ucraina” e “parla di ciò che abbiamo vissuto negli ultimi mesi con un equilibrio grandissimo, molto difficile da mantenere in questo periodo”. L’autore non si nasconde le difficoltà di imboccare la via della pace, ma non rinuncia alla speranza. Contro ogni indifferenza, senso di irrilevanza, forte depoliticizzazione nella quotidianità. La questione della guerra “è inserita oggi in una prospettiva storica di grandi inquietudini, dove manca però il pensiero profondo, quello di lunga durata”. In tale situazione “la Chiesa ha comunque mostrato la consapevolezza di dovere affidare al mondo un messaggio di pace”.

     

    ZUPPI: PER UNA DIPLOMAZIA MENO SUDDITA DELLA CRONACA E DELLE EMOZIONI DEL MOMENTO – IL RINGRAZIAMENTO DI RICCARDI

    Dopo aver rilevato che il libro di Riccardi ha dietro di sé quarant’anni di esperienze, incontri, riflessioni, il cardinale Matteo Maria Zuppi ha evidenziato che “non è solo un libro sulla pace, ma anche sulla preghiera… insegna a pregare”. Ed è un testo che l’esponente santegidino, reduce dalle recenti ‘missioni’ a Kiev e a Mosca, raccomanda per la lettura “a molti diplomatici”. Perché “abbiamo bisogno di diplomatici veri, che si sottraggano alla tirannia della cronaca e vadano nel profondo”. I colloqui diplomatici “non necessariamente devono essere esibiti, non sono legati all’immediatezza della comunicazione”. Infatti “è in ‘camera caritatis’ che si possono individuare soluzioni” per imboccare la via della pace.  La guerra, ha affermato il presidente della Cei, “è sempre un’inutile strage, è sempre una sconfitta per tutti… la vera pace è quando nessuno perde”. Nel libro, ha osservato ancora Zuppi, c’è – oltre alla storia – anche tanta geografia quando ad esempio l’autore si sofferma sulle vicende molto contrastate di tre città-simbolo come Salonicco, Sarajevo, Leopoli.

    L’autore, nel suo ringraziamento, ha evidenziato come “oggi la politica corra dietro alle armi, non le guida. E la guerra tende a ‘eternizzarsi’, ridotta quasi a un gioco da videogame, in cui vita e morte si equivalgono. Qui Riccardi ha citato un passo dell’autobiografia del principe inglese Harry, in cui quest’ultimo ricorda senza emozione di avere ucciso in Afghanistan venticinque talebani, considerati non come persone, ma “pedine degli scacchi tolte dal tabellone”. La guerra l’abbiamo subita e la subiamo, la guerra l’abbiamo accettata. Dov’è oggi il movimento per la pace, ben vivo al tempo della guerra in Iraq, de facto assente in questi anni di guerra in Siria? “Non lo so, non lo vedo”. Tuttavia “ci sono tanti frammenti in movimento”, da ricomporre per “ricostruire il ‘noi’, la comunità”, connotata dall’ “orrore per la guerra”. E con una politica che deve recuperare la storia, la memoria,  avere “pensieri più lunghi e visioni più larghe”, tessendo con serietà la tela della diplomazia.

     

    QUALCHE SPUNTO DA “IL GRIDO DELLA PACE” DI ANDREA RICCARDI (EDIZIONI SAN PAOLO)

    . Ripudio della guerra. L’accettazione passiva della guerra e la sua riabilitazione come strumento politico è espressione di una coscienza che si è allontanata dalla lezione della storia del Novecento, la quale aveva portato, fin dai testi costituzionali di vari Paesi, al ripudio di essa, al diffuso senso di orrore per la violenza dei conflitti.

    . La guerra come un videogioco. Durante la Guerra fredda, nonostante il rischio di scontro e la minaccia nucleare, era chiaro ai più come il mantenimento della pace fosse un obiettivo prioritario, se l’umanità voleva sopravvivere. Questa coscienza si è progressivamente oscurata. Con il passare delle generazioni e lo spegnersi dei testimoni, si è riabilitata la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e di affermazione dei propri interessi. In Afghanistan, Iraq, Libia, nonostante gli effetti negativi dell’intervento militare, si è assistito all’utilizzo della guerra come strumento di politica internazionale. E’ prevalsa un’immagine tecnologica, quasi ‘pulita’ – un game – lontana dalla ‘guerra sporca’ nelle trincee della Prima Guerra Mondiale o del Vietnam.

    . Senza storia analfabeti e ciechi di fronte al futuro. Si apre un compito decisivo per la memoria storica. La storia libera le vicende umane e la guerra dall’oblio in cui spesso cadono donne e uomini, occupati ossessivamente dal presente e da sé stessi. La storia libera la memoria della guerra dall’autocelebrazione tipica della vittoria e dell’eroismo, che poco dice oggi. (…) In un continente intriso di storia come l’Europa, è difficile vivere e governare senza storia: si resta analfabeti della realtà e ciechi di fronte al futuro.

    . Salmen Gradowski. In un appunto di Salmen Gradowski, datato 6 settembre 1944, si legge: ‘Desidero lasciare questo scritto, come pure numerose altre annotazioni, a memoria del futuro mondo pacificato, affinché si sappia cos’è accaduto in questo luogo (NdR: Auschwitz). L’ho sepolto sotto le ceneri, ritenendo che si trattasse del luogo più sicuro, dove certamente un giorno si sarebbe scavato per trovare la memoria di milioni di uomini uccisi… che il mondo possa dare uno sguardo almeno su una goccia, su un frammento del mondo tragico in cui abbiamo vissuto’,

    . Le Chiese insegnano ad amare la propria terra, non a idolatrarla. Oggi gli europei paurosi dicono che alcuni leader cristiani, come papa Francesco, e che alcune Chiese, hanno tradito la cristianità in favore di un buonismo, di un cosmopolitismo o di un terzomondismo. La Chiesa avrebbe tradito l’Europa cristiana… Le Chiese, nella storia, sono state molto legate agli ambienti regionali e nazionali, alle città, ma sempre hanno indicato un oltre, un orizzonte, una comunione più larga e poi lo spazio del Regno dei cieli. Le Chiese hanno insegnato ad amare la propria terra, ma non a idolatrarla. Certo, non sempre.

    . La visione di Giorgio La Pira. Per La Pira il cristianesimo può svolgere un grande ruolo nel qualificare l’Europa di fronte al mondo e nel trascendere la civiltà occidentale. Nel 1958 scrive a Pio XII: ‘Ai popoli dell’Islam che si arroccano, pregando, attorno alle loro moschee; ai popoli dell’Asia che prendono coscienza della loro radice ‘metafisica’ e contemplativa; allo spazio comunista che viene animato da una falsa mistica di giustizia sociale e di fraternità umana, che cosa contrappone l’Occidente cosiddetto libero?’

    . La pace? Ispiri ognuno per il futuro. La riconquista del passato, l’affermazione di una dimensione dialogica della vita, sono il terreno su cui maturano le visioni del futuro. E quando si riconquista la storia, si vedono gli orrori delle guerre passate e si coglie il valore della pace. Questo conferma l’aspirazione alla pace, che può divenire una visione ispiratrice dell’azione personale, della politica, del futuro.

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