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    16 OTTOBRE/RICORDIAMO INSIEME: FERITE ANCORA APERTE

    16 OTTOBRE/RICORDIAMO INSIEME: FERITE ANCORA APERTE – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 29 ottobre 2022

     

    A Roma mercoledì 26 ottobre 2022 la decima commemorazione del rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943 da parte di ‘Ricordiamo Insieme’. Incontri a piazza San Pietro, all’ex-Collegio militare, a Regina Coeli. Grande emozione per la lettura dei nomi dei deportati mai più tornati da Auschwitz, anche dopo il 16 ottobre e degli ebrei assassinati alle Fosse Ardeatine. Dai discorsi emerge che le ferite non sono ancora sanate e che il fare memoria degli orrori della storia è un dovere civico che non si estingue.

    Ieri sera siamo stati all’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, dove abbiamo assaporato un concerto di canti popolari spagnoli, di brani internazionali conosciutissimi di musica leggera e in conclusione perfino il Va’ pensiero. A mostrare le sue qualità l’Orfeon Donostiarra di San Sebastian, considerato uno dei migliori cori iberici. Ma che c’entra – direte voi – tutto questo con il titolo apposto all’articolo? Leggete e vi sarà chiaro.

    Affacciandoci al celebre balcone del Palazzo, che da quattrocento anni ospita l’ambasciata (vedi https://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/1101-parolin-la-virgen-del-pilar-protegga-la-spagna-con-premessa.html ), abbiamo fatto conoscenza con un antiquario, Alberto Di Castro, discendente di una antica famiglia ebrea cacciata dalla Spagna nel 1492 e approdata poi a Roma. Consci che oggi avremmo scritto dell’argomento ’16 ottobre 1943’, gli abbiamo chiesto se… e siamo venuti a sapere che la madre, Simonetta Ascarelli, si era salvata fuggendo con la famiglia in Svizzera, passando avventurosamente la frontiera vicino a Chiasso; invece il padre, Franco Di Castro, aveva trovato sicura protezione con la famiglia presso monsignor Maurizio Raffa, parroco della chiesa trasteverina di San Giovanni Battista dei Genovesi, insignito nel 2009 del titolo di “Giusto tra le Nazioni”. Alberto di Castro è oggi ancora molto riconoscente a Santa Romana Chiesa per l’aiuto decisivo dato in quei momenti storici connotati dalla barbarie nazista e dalla attiva complicità o da un’atroce indifferenza da parte di non pochi fascisti. La sua famiglia non ha conosciuto gli orrori della Shoah, tante altre invece sì. Ed è proprio per questo che ogni anno anche l’associazione Ricordiamo Insieme fa memoria collettiva del 16 ottobre 1943 con una serie di pubbliche manifestazioni a Roma. Rossoporpora.org ne ha riferito più volte in questi anni (vedi ad esempio https://www.rossoporpora.org/rubriche/italia/1044-ed-segno-e-protocolli-memoria-viva-con-ricordiamo-insieme.html ).

    Quest’anno la commemorazione si è svolta mercoledì 26 ottobre, connotata da qualche novità. Ha preso avvio alle 15.30, in tre luoghi-simbolo: in Piazza San Pietro, all’ex-Collegio militare (in cui furono rinchiusi gli ebrei catturati durante il rastrellamento, oggi Centro di Alti Studi per la Difesa/CASD), nel carcere di Regina Coeli. Dappertutto ha suscitato grande emozione la lettura di una serie di nomi: dei 623 cittadini ebrei catturati dopo il 16 ottobre 1943 e mai tornati da Auschwitz (San Pietro, lettura da parte dell’ambasciatore tedesco Bernhard Kotsch e degli studenti del Liceo classico Giulio Cesare di Roma), dei 1024 cittadini ebrei catturati il 16 ottobre e mai tornati da Auschwitz (CASD), dei 75 cittadini ebrei assassinati alla Fosse Ardeatine (Regina Coeli, lettura da parte degli studenti dell’Istituto di Istruzione superiore ‘Largo Brodolini’ di Pomezia). Secondo tradizione i partecipanti di piazza San Pietro hanno raggiunto l’ex-Collegio militare (dove si è tenuta la cerimonia solenne) con la ‘Marcia dei mille passi’. Sempre secondo tradizione anche la musica ha avuto un ruolo importante nell’accompagnare i diversi momenti della commemorazione (Berthold Pesch, Bibiana Carusi, Stefano Galli, Daniel Coen, Sara Caivano, Livia Minervini). Inoltre, nel cortile del CASD, sono stati posti su quattro tavoli cartoni neri e pennarelli bianchi perché ognuno dei presenti potesse scrivere nomi di deportati.

    Tante le presenze, tanti i saluti ufficiali e i discorsi. Dal Rabbino-capo di Roma Riccardo Di Segni al già citato ambasciatore di Germania presso la Santa Sede, dall’ordinario militare in Italia Santo Marcianò al direttore dell’Ufficio Cei per ecumenismo e dialogo interreligioso don Giuliano Savina, dall’ammiraglio Giacinto Ottaviani all’assessore alla Memoria della Comunità ebraica di Roma Massimo Finzi. Presso il carcere di Regina Coeli, oltre alla scrittrice Lia Tagliacozzo, hanno parlato il padre Nando (familiare di deportati), la direttrice Claudia Clementi e il cappellano padre Vittorio Trani. Hanno portato i saluti dei promotori Tobias Wallbrecher - che in piazza San Pietro ha voluto evidenziare la presenza del Liceo classico Giulio Cesare di Roma: La vostra presenza qui è importantissima, vi preghiamo, continuate ad accompagnarci anche negli anni da venire – Sara Spizzichino, Rivka Spizzichino per Ricordiamo Insieme e Lello Dell’Ariccia per Progetto Memoria.

    A seguire qualche citazione significativa estrapolata dai discorsi degli altri oratori. In sintesi se ne trae una prima constatazione: la ferita del 16 ottobre 1943 per certi versi continua a sanguinare. E forse ciò fa velo anche al riconoscimento pieno del fatto che migliaia di ebrei italiani furono salvati grazie alla solidarietà concreta e molto rischiosa di non pochi cattolici, religiosi e laici. Certo però l’atteggiamento tenuto il 16-18 ottobre 1943 dalle gerarchie ecclesiastiche vaticane non finisce di turbare. Seconda constatazione: contrariamente a un’opinione non così isolata (Uh… che noia! Uh… che barba! Ancora si parla di fatti di ottant’anni fa!), della barbarie del 16 ottobre 1943 - inserita nell’immane tragedia della Shoah- non solo è giusto, ma è doveroso fare ancora memoria. E per lungo tempo: i testimoni muoiono, ad altri toccherà raccogliere la fiaccola del ricordo, che spegnere non si può.

     

    Piazza San Pietro / MARCO CASSUTO MORSELLI (presidente delle Federazioni amicizie ebraico-cristiane in Italia)

    . Tacere vorrebbe dire mettersi dalla parte di coloro che la Shoah l’hanno progettata e realizzata, i quali per primi volevano che il silenzio ricoprisse tutto. La Shoah è fatta di milioni di storie individuali. Se ci si sofferma su queste, si perde una delle sue caratteristiche principali: l’immensità della Shoah, che è un aspetto della sua incomprensibilità, come ha osservato lo storico Saul Friedländer. Si uccidevano persone nello stesso momento su un territorio immenso, da Drancy ad Auschwitz e fino alle estremità orientali dell’Ucraina. E oltre alle storie delle vittime ci sono anche quelle dei carnefici e di coloro che pur non partecipando direttamente agli omicidi li hanno resi possibili con la loro inazione, oppure che aspettavano il momento giusto per andare a saccheggiare le case svuotate dei loro occupanti.

    . Perché noi siamo qui oggi, 79 anni dopo? Noi siamo qui per dire che non abbiamo dimenticato e per testimoniare il nostro impegno perché quanto successo “non accada mai più”. Ma come fare sì che queste parole non siano vuote, retoriche, inadeguate? Gli storici continuano a interrogarsi sulle ragioni del silenzio di Pio XII, anzi dei suoi silenzi, come ha precisato Giovanni Miccoli. Ma tale silenzio – che è un fatto, come un fatto è il salvataggio di migliaia di ebrei nelle istituzioni cattoliche e di altre migliaia ancora grazie all’iniziativa individuale di tanti cattolici, anche a rischio della vita – è solo un aspetto di un problema molto più vasto: il rapporto tra antisemitismo e antigiudaismo. Secoli di cattiva teologia avevano insegnato che gli ebrei sono il popolo deicida, che ha per padre il diavolo. Come Papa Francesco ha scritto nella Prefazione a La Bibbia dell’Amicizia:”Sono ben consapevole che abbiamo alle spalle diciannove secoli di antigiudaismo cristiano e che pochi decenni di dialogo sono ben poca cosa al confronto. Tuttavia in questi ultimi tempi molte cose sono mutate e altre ancora stanno cambiando. Occorre lavorare con maggiore intensità per chiedere perdono e per riparare i danni causati dall’incomprensione. I valori, le tradizioni, le grandi idee che identificano l’Ebraismo e il Cristianesimo devono essere messe al servizio dell’umanità senza mai dimenticare la sacralità e l’autenticità dell’amicizia”.  L’impegno nel dialogo tra ebrei e cristiani, seguendo il luminoso esempio di Jules Isaac (1877-1963) è un modo per non rimanere sopraffatti e paralizzati da sentimenti di dolore e di orrore.

     

     

    Piazza San Pietro / PADRE PHILIPP WAGNER OP (Rettore di Santa Sabina sull’Aventino)

    . La mattina del 11 dicembre 1941 una squadra delle SS assaltò le case di due (delle tre) famiglie ebraiche che si trovarono ancora a Brüggen, un villaggio in cui sono cresciuto, allora di 1600 abitanti nella Bassa Renania. Alex e Julie Wolff, Albert e Erna Braun con Fritz e Regina, in un blitz che durava neanche mezz’ora, furono catturati e tirati fuori delle loro case, buttati in un camion e portati subito allo scalo merci di Düsseldorf – Derendorf dove aspettava già il treno.

    . A Brüggen, nel mio paese, nessuno dei vicini aveva visto e sentito niente – in una strada di un piccolo paese in cui non succedeva mai niente. Nessuno aveva sentito il rumore delle macchine e di un camion, nessuno aveva visto che 6 persone, 4 adulti e due bambini, furono tirate fuori dalle loro case, messe in quel camion e portate via. Nessuno aveva sentito delle grida. Nessuno aveva visto che il giorno dopo l’11. Dicembre, due case erano vuote. Nessuno aveva visto portare via i mobili per essere venduti a una delle aste organizzate dai nazi per vendere la proprietà degli ebrei. Nessuno aveva visto niente. Anzi: per anni, per decenni si raccontava nel mio paese che tutti gli ebrei erano riusciti a fuggire in Inghilterra (è vero che erano riusciti a fuggire i figli minorenni di una di queste famiglie e della terza famiglia di ebrei, che però al tempo della deportazione non si trovava nel paese). Nessuno voleva ricordarsi della deportazione e dello sterminio, nessuno voleva parlarne. Si ricorda e ci si chiede giustamente perché il Papa, Pio XII, la Chiesa hanno taciuto; si ricorda e ci si chiede giustamente quale ruolo ha avuto l’antigiudaismo religioso come origine dell’antisemitismo ideologico. Ma tutto questo non spiega sufficientemente perché noi abbiamo taciuto: I vicini, i tedeschi, i cristiani, i cattolici… – quelli che avrebbero potuto ricordarsi almeno dopo la fine del regime nazionalsocialista e quelli che avrebbero dovuto sapere, per far sì che questa parte della storia – anche se non vissuta in prima persona – diventi una parte della memoria collettiva e non sarà mai dimenticata e mai taciuta.

    . Ogni parola che ricorda le vittime, ogni parola che punta il dito con chiarezza contro la crudeltà e la barbarie dei crimini del nazionalsocialismo – e contro coloro che ne riprendono le invettive oggi toglie spazio a queste ideologie. Le parole dette da noi oggi si ripetono. Probabilmente si ripetono ogni anno, vengono ripetute in altri luoghi, in altre città in cui si ricorda la deportazione e lo sterminio degli ebrei: a Roma, a Gerusalemme, a Berlino, nel mio piccolo paese della Bassa Renania. Serve a qualcosa? (Fare e ripetere le stesse parole…). Serve? Io dico di sì. Perché ogni parola – anche quella ripetuta copre il silenzio. Ogni parola contro il silenzio è un rifiuto dell’antisemitismo e ogni parola ci aiuta a ricordare insieme che ciò che è avvenuto non accada mai più. Ma attenzione! “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.”

     

    Casd / ALBERTO SONNINO (psichiatra)

    . Cos’è che rende il trauma della Shoah, un trauma psichicamente inelaborabile?Se questa riflessione nasce in rapporto ad un trauma collettivo, che ha investito milioni di persone, per affrontare il quesito, possiamo riferirci alla situazione individuale, vissuta dal singolo paziente portatore di un’esperienza traumatica e in trattamento psicologico. Per un tale paziente, l’esperienza clinica insegna, il riavvicinamento alle proprie aree traumatiche comporterà inevitabilmente il ritorno di angoscia e di malessere psichico, inducendo così meccanismi di evitamento, di allontanamento o di negazione. Il riaffiorare del ricordo di un’esperienza traumatica espone alla possibilità di riviverla, facendo sperimentare di nuovo stati d’animo della stessa qualità emotiva che ha caratterizzato l’evento originario: sofferenza, dolore, rabbia impotente. Qualunque ferita, se non ben rimarginata, comporterà nuovi sanguinamenti ogni qualvolta dovesse gravarvi sopra il peso della memoria. Ciò rende il ricordo del trauma inaccostabile, se non solo dopo un attento e profondo lavoro psichico di preparazione durante il quale paziente e terapeuta vengono lungamente messi alla prova.

    . Ma c’è un altro significativo aspetto che contribuisce a rendere inelaborabile il trauma psichico della Shoah a livello collettivo ed è la mancanza di un contenitore esterno idoneo, atto a raccogliere il peso della testimonianza e del racconto. Ciò significa che se abbiamo tanti meritevoli esempi oggi in Europa di chi si è messo in discussione, non possiamo affermare lo stesso rispetto al mancato riconoscimento di tutte quelle responsabilità che non sono state ancora individuate perché coperte dai mancati processi e dalle amnistie, in Germania e in Italia, che hanno permesso a migliaia di carnefici di sfuggire alla Giustizia, spesso con l’aiuto complice di organismi ed istituzioni preposte alla carità. Il riferimento è alla Ratline, la via di fuga dei gerarchi nazisti diretti in Sudamerica, e al mito dell’italiano “presunto buono”, incapace di esercitare la violenza della persecuzione, a differenza dell’alleato tedesco.

     

    Casd /GIANNI POLGAR (testimone nato a Fiume nel 1936, a Roma dal 1939)

    . Un saluto a tutti i rappresentanti delle Istituzioni ed a  tutti i presenti, uno speciale ai ragazzi del mio Liceo, il Giulio Cesare, in cui passai tre bellissimi anni.

    . Sono passati pochi giorni dal ricordo del vile attentato palestinese alla Sinagoga (NdR: 9 ottobre 1982, morì Stefano Gay Taché, due anni di età), ennesima prova che essere ebrei ha un prezzo, talvolta mostruoso come la vita di un bambino ed il ferimento di decine di persone: eppure nessuno ha pagato per quel sangue versato e ancora c’è solo la nebbia di  indagini dubbie condotte in modo approssimativo per probabili vergognosi “lodi politici” sottoscritti dai nostri governanti ed una bara sindacale a riprova che l’unico ebreo buono è quello morto.                                                         

    . Nessuno protestò la  mattina di quello Shabbat atroce di quasi 80 anni fa; nessuna voce si levò nei 2 giorni successivi; nessuno minacciò, come accadde in Bulgaria, di sdraiarsi sui binari per impedire che partissero i treni della vergogna; nessuno ebbe pietà; anzi, ci fu, come alcuni anni fa ha ricordato proprio qui il Rabbino Capo Di Segni, forse la prima selezione in Italia, salvando solo chi considerava la propria gente. Certo non + politicamente corretto parlare così, ma non si può sempre far finta che non ci sia stato quell’abominio, quel girare la testa per indifferenza o, peggio, tacere in un silenzio che la generosità, la solidarietà, il coraggio di tanti non hanno neanche scalfito

    . Con l’inevitabile scomparsa in pochi anni di noi tutti che vivemmo più o meno intensamente quei tempi, ancora di più la Memoria dovrà essere viva nelle leggi dello Stato severamente applicate ogni volta che la discriminazione, il razzismo, la violenza verso il diverso emergono nei più vari contesti ed occasioni.

    .Non so se il “mai più” si potrà mai realizzare: il mondo, gli eventi, che ci circondano indurrebbero al pessimismo, ma voglio ancora credere in un’umanità migliore che tragga insegnamento dalla Storia e non la ignori: non si può vivere senza speranza. Il futuro non può né deve essere uguale al passato, ma migliore.   

                                                   

    Regina Coeli / LIA TAGLIACOZZO (scrittrice)                                                                                                                              

    Ci aspetta quindi un lavoro capillare, minuto e minuzioso per contrastare una visione della Shoah e del nazifascismo come qualcosa che non riguardi la storia italiana: nonno Arnaldo era italiano, 'romano de' Roma', nato l'otto novembre del 1901 e morto in luogo e data ignoti. Perché la Shoah non fu solo il massacro industrializzato di milioni di persone diverse ritenute inferiori voluto e realizzato dai nazisti tedeschi ma ebbe in Italia collaboratori ed esecutori fedeli e solleciti. E adesso che la povertà e la fame rischiano di toccarci come mai negli ultimi decenni, che l'esclusione sociale aumenta a causa della crisi economica, che la paura della guerra ci rende tutti più fragili... mai come oggi bisogna essere pronti a riconoscere i segni della discriminazione e dell'odio e denunciarli con tutte le proprie forze. Ovunque questo accada. Questo bisogna fare oggi perché ciò che è accaduto allora non si ripresenti più.

     

    DAL SALUTO DI TOBIAS WALLBRECHER A PIAZZA SAN PIETRO (a nome dei promotori della commemorazione)

    Desideriamo ripetervi le parole del nostro amico, sacerdote cattolico, don Filippo Morlacchi, il quale oggi vive e lavora per la Diocesi di Roma a Gerusalemme, pronunciate in Piazza San Pietro cinque anni fa: “Siamo qui per ricordare un abbandono. Un tempo in cui avremmo dovuto essere accanto a chi soffriva persecuzione, e non ci siamo stati. Potevamo esserci, dovevamo esserci, e non ci siamo stati. Ha Shem si rivelò a Mosè nel deserto come ‘Ehezeh asher ehezeh’ (Es 3, 14), ‘colui che c’è e ci sarà’ nella vita e nella storia del Suo popolo. Egli non ha mai abbandonato, e mai abbandonerà i figli d’Israele. Noi cristiani, che pure appelliamo a quel nome e a quella rivelazione, e che dovremmo sentirci chiamati ad essere ‘segno’ della sua presenza del suo amore nel mondo, quel 16 ottobre non ci siamo stati”. (vedi anche https://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/904-cattolici-e-shoah-parole-sferzanti-in-piazza-san-pietro.html ).

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