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    TETTAMANZI E IL GRIDO D'AIUTO DEI CRISTIANI TURCHI

    ROSSOPORPORA DI GIUGNO 2010 SU 'IL CONSULENTE RE ONLINE

     

    L'omelia del cardinal Tettamanzi alle esequie di monsignor Padovese, assassinato in Turchia. I cardinali Kasper, Sandri e Scola su ortodossi, Medio Oriente e fondamentalismo. Dei casi di pedofilia nella Chiesa parla il cardinale Murphy O' Connor. Carlo Caffarra alla Macerata-Loreto di Comunione e Liberazione. Il cardinal Bertone sulla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa. La fede a Roma secondo il cardinal Vallini. Una lettera del cardinal Sepe sul periodo a 'Propaganda fide'. 

     

     

    Il 3 giugno, alla vigilia dell’arrivo del Papa a Cipro, veniva assassinato a Iskenderun (Turchia) monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia. A colpire, decapitandolo, il vescovo cappuccino il suo autista, il ventiseienne Murat Altun, musulmano. Quattro anni fa era stato ugualmente assassinato a Trebisonda don Andrea Santoro, di cui proprio monsignor Padovese aveva celebrato i funerali. Le esequie del vescovo (precedute da una vicenda di incredibile incuria, per leggerezza non si sa di chi, riguardante la traslazione della salma dalla Turchia a Milano) sono stati presieduti in Duomo dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Con lui hanno concelebrato una quarantina di vescovi e circa 300 sacerdoti, presenti circa cinquemila persone che hanno gremito le navate della cattedrale ambrosiana. Questo l’incipit dell’omelia del porporato settantaseienne: “Siamo onorati di accogliere nel grembo della nostra Chiesa ambrosiana, per l’ultima volta, il corpo di monsignor Luigi Padovese, questo figlio della nostra terra e della nostra Chiesa che, per chiamata di Cristo, è divenuto figlio e padre della Chiesa di Turchia”. Ha proseguito il pastore brianzolo: “Nell’esistenza di questo nostro fratello e padre si è realizzata la  parola di Gesù che ha paragonato la vittoria della sua Pasqua al mistero del seme che porta frutto nel suo morire: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24).

    La vita del presule assassinato ricorda quella del chicco: “In questa terra turca, che aveva tanto studiato, monsignor Padovese ha voluto inserirsi e lasciarsi macerare, amando questo nobile popolo”. E guidando “la Chiesa di Anatolia, una Chiesa di minoranza, spesso sofferente e provata”. Il vescovo sessantatreenne è stato “chicco di grano” anche “in quest’ultimo drammatico istante della sua vita, mentre era accanto a un fratello che considerava amico e figlio”. Ha qui rilevato il cardinale Tettamanzi: “Il suo corpo e il suo sangue sono davvero caduti sulla terra di Turchia e, pur nel dolore e nelle lacrime, ci appaiono per quello che sono davvero: non più segni di una vita strappata da violenza insensata e tragica, ma offerta viva di sé che padre Luigi ha vissuto in ogni giorno della sua missione di Vescovo”.

    L’arcivescovo di Milano intende “raccogliere il grido, o meglio il lamento, che si leva” dai cattolici turchi: “Vogliamo, come Chiesa ambrosiana, insieme con tutte le comunità cristiane, accogliere e affrontare la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre e dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica, amando Cristo e ogni uomo sino alla fine”. Il commiato: “Vescovo Luigi, fratello nostro, Angelo della tua Chiesa, insegnaci a sperare! Amen”.

    In un’intervista a L’Osservatore Romano del 9 giugno, il cardinale Walter Kasper (che – da presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani - ha accompagnato il Papa nella visita a Cipro del 4-6 giugno) ha lodato l’arcivescovo ortodosso Crisostomo II, “persona molto forte, decisa, intelligente e aperta”. L’arcivescovo ha “un’ottima sintonia” con Benedetto XVI: anche a Cipro “ne ha fatto dimostrazione davanti a tutti, quando, durante la messa al palazzo dello sport di Nicosia, al momento del gesto di pace, è salito all’altare e ha fraternamente abbracciato e baciato il Papa”. Crisostomo II – ha proseguito il porporato tedesco – “sa che in questo momento i cristiani si trovano a vivere una situazione molto difficile”, perché “in tutto il Medio Oriente sono in minoranza e rischiano di esserlo sempre di più a causa dell’emigrazione”. Per questo Crisostomo II “sa bene che è meglio che i cristiani affrontino uniti questo momento”: del resto “nessuna Chiesa può confrontarsi con certe situazioni se resta sola”. Da questo punto di vista “per le Chiese cattoliche del Medio Oriente sarà molto importante la prossima assemblea speciale del Sinodo dei vescovi”, dato che “saranno chiamate a riflettere proprio sul senso del loro stare insieme, del loro essere effettivamente in comunione, sul senso della testimonianza che esse sono chiamate a dare insieme”. Motivi questi che “spingono anche gli ortodossi a guardare con attenzione alla prossima assemblea, alla quale tra l’altro parteciperanno con i loro delegati” (NdR: sul prossimo Sinodo vedi anche l’approfondimento in questo numero, nella rubrica Attualità).

     

    Sempre sul tema della visita papale a Cipro e sempre in un’intervista a L’Osservatore Romano (ma del 12 giugno) il cardinale Leonardo Sandri ricorda che “il grande magistero di Benedetto XVI è imbevuto della tradizione delle Chiese orientali, della loro disciplina e teologia, dei padri orientali, dei concili ecumenici”. Con ciò si comprende come le Chiese orientali “desiderino così fortemente la vicinanza del Papa”, dato che “riconoscono in lui la voce paterna del Vescovo di Roma, che ha il tono dell’Oriente cristiano”. Il sessantaseienne prefetto della Congregazione per le Chiese orientali ha anche risposto a una domanda sul muro che divide Nicosia, rilevando che, vedendolo, con la mente è tornato “al muro che delimita i territori palestinesi e a tutti i muri, visibili e non visibili, che separano l’uomo dall’uomo” e “provocano grandi sofferenze”. Se “Cristo con la sua morte ha abbattuto tutti i muri eretti dal peccato, l’uomo ne ha costruiti altri, di nuovo”. Oggi il Medio Oriente ha bisogno non di “muri, ma di vera libertà per tutti, nel vicendevole rispetto e unione tra gli uomini e tra i popoli”.

    Il cardinale Cormac Murphy-O’Connor, arcivescovo emerito di Westminster, nominato recentemente da papa Benedetto XVI visitatore apostolico per l’arcidiocesi di Armagh, ha concluso l’Anno sacerdotale proprio in Irlanda, a Maynooth (come apprendiamo da L’Osservatore Romano del 17 giugno). Il porporato settantottenne, riferendosi alla penosa questione degli abusi sessuali di ecclesiastici e religiosi, ha ammesso che per la Chiesa irlandese i tempi attuali sono di notte buia e tuttavia tale espressione implica anche “apprendimento, purificazione e fiducia”. In effetti , ha osservato, “nel buio della notte tutto quello che abbiamo è la nostra fede in Dio che non ci ha abbandonati e sta lavorando con noi. Naturalmente avvertiamo la crudezza dei nostri peccati ma anche della nostra povertà”. Non c’è dubbio che “nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere vi sono soprattutto coloro che hanno subito abusi”. La Chiesa “è stata colpita da questi terribili crimini”. E “non importa che la grande maggioranza dei vescovi e dei sacerdoti siano servi buoni e pastori del loro popolo”, perché, “quando lo scandalo degli abusi scorre così in profondità, proietta la sua ombra su tutto”.

    Il patriarca di Venezia Angelo Scola ha aperto lunedì 21 giugno a Beirut (presenti anche il patriarca maronita Nasrallah Pierre Sfeir e il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, cardinale Jean-Louis Tauran), il convegno del Comitato scientifico di Oasis svoltosi in terra libanese. Il porporato di impronta ciellina ha parlato della necessità di un’educazione adeguata, atta a far maturare nell’uomo anche la capacità di dialogo vero con l’altro. Ne ha parlato, come si diceva, in Libano: “opportunità straordinaria, perché questo è un Paese  scelto di legare le proprie sorti al successo o al fallimento dell’impresa educativa”. In Libano “l’educazione si rivela come il caso serio per eccellenza: dove riesce, assicura un essere-insieme (convivenza pare un termine riduttivo e logoro) che si è guadagnato l’ammirazione di tutto il mondo; ma quando fallisce, lascia il campo alle peggiori violenze”.

    E’ vero che “l’impresa educativa – non è il caso di nasconderselo – è in affanno un po’ a tutte le latitudini”. Certo è questo il caso dell’Occidente, “dove ormai si parla apertamente di emergenza educativa e dove non di rado sembra smarrita l’idea stessa di educazione”. Anche il resto del mondo non sta però meglio: “In molte società post-coloniali il sistema delle scuole statali e non-statali non riesce ancora ad assicurare un’istruzione di massa di qualità”. Il cardinale Scola ha aggiunto che “in molti casi è la questione linguistica che diventa specchio del difficile rapporto con la modernità”. In quale senso? “Che cosa significa per uno studente ricevere la formazione umanistica e religiosa nella propria lingua nazionale e quella scientifica in inglese o francese? Non si insinuerà l’idea che le due aree del sapere siano incomunicabili, aprendo la strada ad atteggiamenti schizofrenici che facili concordismi tra scienza e fede non possono sperare di guarire?”.

    In un altro passo della sua relazione (continuiamo a servirci del sito www.angeloscola.it )ha osservato il sessantottenne patriarca di Venezia: “Si ripete di frequente, e non senza ragione, che il miglior antidoto al fondamentalismo e alla violenza è l’educazione. Occorre però aggiungere: non qualsiasi educazione, ma un’educazione che sappia tenere insieme verità e libertà. E quest’ultima nella sua dimensione personale e in quella comunitaria – comprendendo dunque la libertà d’espressione e di critica, anche dolorosa ove necessario, e, quanto alla libertà religiosa, anche la conversione”. Un punto quest’ultimo – rileviamo – assai dolente per il mondo islamico.

    Nella notte tra sabato 12 e domenica 13 giugno si è svolto per la trentaduesima volta il grande pellegrinaggio mariano, giovanile e popolare Macerata-Loreto, promosso da Comunione e Liberazione. Dalle poche centinaia di partecipanti dei primissimi tempi - che avevano aderito all’idea di don Giancarlo Vecerrica (ora vescovo di Fabriano) - si è ormai passati a numeri a cinque cifre, quasi tendenti a sei: quest’anno i pellegrini erano circa novantamila. A loro si è rivolto durante la tradizionale messa, celebrata prima del via nello stadio Helvia Recina di Macerata, il cardinale Carlo Caffarra. Nella parte finale dell’omelia l’arcivescovo di Bologna ha ricordato i momenti più difficili del pellegrinaggio: “Arriverà il momento questa notte  in cui vi sentirete stanchi, vi faranno male i piedi. Così prima o poi accade anche nella sequela di Gesù. E allora sei tentato di fermarti”. Perché dici tra te e te: “Non ci riesco: mi fanno male i piedi e quindi non posso camminare dietro di Lui. E pensi che non ce la fai più a portare la croce di una malattia o di una grave sofferenza; che non sopporti più i tuoi genitori, che stai consumando i tuoi giorni perché non ti impegni nel lavoro o nello studio; che non riesci a non avere rapporti sessuali con la tua ragazza prima del matrimonio”. Allora “ascolta quanto scrisse uno che per anni avvertì queste stesse difficoltà, anche quando aveva già capito che solo seguendo Gesù avrebbe trovato la vera gioia. Si tratta di sant’Agostino, che dice: Forse tenti di camminare, e ti dolgono i piedi, perché (…) hai percorso duri sentieri. Ma il Verbo di Dio è venuto a guarire anche gli storpi. Ecco, dici, io ho i piedi sani, ma non riesco a vedere la via. Ebbene, egli ha illuminato anche i ciechi.” Così ha concluso l’arcivescovo di Bologna: “Cristo è tutto. E’ la via; è la meta; è la forza che ci fa camminare”.

    Incontrando l’11 giugno in Vaticano, dove si erano per la prima volta riuniti, i membri della Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa, il cardinale Tarcisio Bertone ha dapprima significativamente ricordato come il processo di unificazione del continente sia stato “favorito, dopo l’esperienza di guerre terribili divenute mondiali, da politici come Schuman, Adenauer e De Gasperi, cattolici ispirati dal messaggio cristiano”. Più in là il Segretario di Stato vaticano ha detto: “Nell’odierna sfida posta dalla globalizzazione (…) il Santo Padre propone, come ha fatto nell’ultima enciclica Caritas in veritate, la scoperta di una fraternità universale, fondata sulla morale inerente alla natura umana, per non incorrere in rischi enormi come il terrorismo, gli scontri di civiltà, le catastrofi belliche”. Non per niente “la mancanza di fraternità” è il fattore più importante, ancora più che “la carenza di pensiero”, del sottosviluppo. Il porporato settantacinquenne ha poi ricordato che “nel 1973 è stato proprio l’interesse per la solidarietà, la giustizia e la coesione sociale a spingere la Santa Sede a divenire membro della Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa, che era nata con la vocazione sociale di favorire la crescita del continente”. Il cardinale Bertone ha qui preso atto, “con soddisfazione”, che “il piano di sviluppo della Banca per il 2005-2009 è stato portato a compimento con successo, soprattutto a favore dei 21 Paesi con maggiori difficoltà dell’Europa centro-orientale e sud-orientale”. Certo, “a causa della crisi economico-finanziaria mondiale, è ancora più importante che la Banca rafforzi la dimensione sociale e solidale del suo lavoro”. Anche nell’intera Europa “l’aumento della povertà e della disoccupazione porta con sé gravi conseguenze sociali e umanitarie”. Attualmente è in atto “una revisione strategica della Banca”, che “può portare ad un approfondimento e chiarimento delle priorità da seguire”.

    Il 15 e 16 giugno si è svolto in San Giovanni in Laterano il Convegno diocesano, aperto da un discorso di Benedetto XVI. La seconda serata è stata invece caratterizzata da un’ampia relazione del cardinale vicario Agostino Vallini, intitolata La celebrazione dell’Eucarestia domenicale e la testimonianza della carità. Quanta fede e che tipo di fede troviamo oggi a Roma? Per il porporato settantenne “la fede esplicita non può essere presupposta neppure nella maggioranza dei battezzati: “Sebbene si possa ritenere che in molte persone rimanga sullo sfondo dell’anima un riferimento a Dio (fede implicita), il dato assai evidente è di un contesto culturale divenuto non solo largamente indifferente, ma nel quale cresce, per tante ragioni, un atteggiamento e forse uno spirito di distanza, di allontanamento, che talora diventa sprezzante, quando non apertamente ostile alla Chiesa e demolisce le basi della fede”. Inoltre “il clima emotivo largamente diffuso è che non si può essere felici senza molto denaro, che quindi bisogna procurarsi ad ogni costo”. Di più: “Che cosa conosce della fede eucaristica la maggioranza dei fedeli che la domenica vengono a Messa?” Rileva il cardinale Vallini: “Stando alle relazioni pervenute (…) molto poco, salvo lodevoli eccezioni”. Tanto che, “a ben considerare, la formazione alla fede eucaristica è la reminiscenza più o meno sbiadita del catechismo in preparazione alla Prima Comunione”. Da tutto ciò si evince che “la questione formativa è alla base di tutto”. E in tal senso bisogna agire con efficacia.

    Più in là il cardinale vicario invita a curare in modo particolare la celebrazione eucaristica, “che, in un contesto in cui molti partecipanti, soprattutto occasionali, sono carenti di formazione, è una proposta di fede”. Perciò “ogni celebrazione eucaristica sia una vera esperienza di preghiera”. Come favorire il clima adatto a tale obiettivo? “Anzitutto educando pazientemente i fedeli al senso del sacro, oggi pressoché scomparso, alla dimensione contemplativa e alla consapevolezza che per entrare nel mistero c’è bisogno di silenzio, di raccoglimento, di concentrazione sul valore di ciò che avviene”. Inoltre “un’attenzione particolare merita il canto, soprattutto nella celebrazione eucaristica domenicale”. Il fatto è che “se un buon canto avvicina a Dio, un’esecuzione arrangiata provoca disagio; e i fedeli talvolta lo dicono, più spesso lo subiscono”. Il cardinale Vallini è chiaro: “Dobbiamo riconoscere che spesso il canto liturgico non è di buon livello, si va avanti come si può, con un coretto rimediato, oppure con corali semiprofessioniste che eseguono dei bei canti, ma senza coinvolgere l’assemblea”. Rimedio: “La formazione di un degno coro parrocchiale, per il quale spendere – se necessario – anche un po’ di denaro, affidato alla guida di una persona competente, è tra gli obiettivi che dobbiamo proporci”.

    A proposito del significato della domenica ha rilevato il presule: “Dobbiamo riconoscere che la santificazione della domenica è diventata oggi più difficile per l’insorgere di stili di vita indotti soprattutto dal consumismo. (…) Ma la comunità ecclesiale non può essere rinunciataria, accontentarsi di proposte minime sul piano della fede e subire le abitudini imposte”.

    Senza edulcorazioni il cardinal Vallini ha anche tratteggiato un quadro realistico dell’attuale realtà: “Dobbiamo riconoscere che non mancano segnali forti di marcata divaricazione tra la fede dichiarata, anche da parte di chi partecipa all’Eucarestia domenicale, e la vita concreta. Come chiudere gli occhi dinanzi a evidenti e gravi controtestimonianze?” Quali? “Si pensi, per fare alcuni esempi, alla continua pratica dell’aborto, agli abusi sessuali e alle violenze morali, all’uso delle droghe, al numero di fallimenti matrimoniali, al tasso di litigiosità e di intolleranza, alle invidie e alle gelosie, al disimpegno nell’assolvere i propri doveri, all’idolatria del denaro e del potere, allo sfruttamento dei prestatori d’opera, al disinteresse nei confronti dei poveri, degli immigrati, degli anziani il cui numero a Roma cresce sempre di più, alla speculazione nelle locazioni abitative, alla pratica dell’evasione fiscale”.

    In conclusione il cardinale vicario, rivolgendosi ai molti presenti in San Giovanni in Laterano, ha così riassunto il da farsi: “La sfida più grande da affrontare è quella della formazione, per la quale abbiamo bisogno di numerosi e preparati collaboratori pastorali. Le persone disponibili per i diversi ambiti non sono sufficienti e molte di quelle che ci sono forse avrebbero bisogno di una preparazione più solida. Nelle assemblee parrocchiali di domani sarete chiamati a discutere i punti di questa mia relazione, ad assumere le indicazioni proposte adattandole ai diversi contesti, e a deciderne l’applicazione graduale con l’inizio del nuovo anno pastorale. (…) Dinanzi agli ostacoli, che potrebbero apparire insormontabili, siate fiduciosi, contando sull’aiuto di Dio”.

    Il 21 giugno, in un incontro a Largo Donnaregina con la stampa, il cardinale Crescenzio Sepe ha letto un documento (“Lettera alla diocesi”) in cui si rivolge ai fedeli napoletani per chiarire la sua situazione alla luce degli addebiti rivoltigli dai magistrati di Perugia e relativi alla gestione del patrimonio immobiliare di Propaganda fide nel periodo in cui ne era il prefetto. Nota subito il sessantasettenne porporato nato a Carinaro (Aversa) che “il pastore della vostra Chiesa si trova ad essere interpellato, come ampiamente riportato in questi giorni dai mezzi di comunicazione, sul fronte di una vicenda giudiziaria, che nella sua essenza, per la fiducia che si deve alla giustizia e per il rispetto al valore della legalità, impone procedure e chiarimenti”: e i fedeli in primo luogo “hanno il diritto di chiedere e di sapere”.

    L’odierno arcivescovo di Napoli rileva che, quand’era prefetto di Propaganda fide e dunque anche responsabile della gestione del patrimonio immobiliare della Congregazione, ha cercato “di inventariarlo, recuperarlo e valorizzarlo per rispetto a quanti nel tempo ne sono stati i donatori e per tutelarne le finalità, rappresentate dal sostegno alle attività missionarie nei Paesi più poveri e dimenticati della terra”. Per quanto riguarda gli addebiti – di “corruzione aggravata” - mossigli (riguardanti “la concessione in uso di un alloggio” al capo della Protezione civile Guido Bertolaso, la vendita all’allora ministro italiano Pietro Lunardi di un palazzetto in via dei Prefetti, i lavori di “messa in sicurezza statica di un lato del Palazzo di Propaganda fide”), il cardinale Sepe li ha respinti in toto. Ricordando – puntigliosamente e non certo casualmente – “di aver fatto tutto nella massima trasparenza, avendo i bilanci puntualmente approvati dalla Prefettura per gli affari economici e dalla Segreteria di Stato, la quale, con una lettera, inviata a conclusione del mandato di Prefetto, volle financo esprimere apprezzamento e stima per la gestione amministrativa”. E precisando – sempre non casualmente – che la somma incassata per l’acquisto del palazzetto da parte del ministro Lunardi “venne trasferita all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), perché fosse destinata a tutta l’attività missionaria nel mondo”.

    Perciò, ha concluso il porporato, “vado avanti con serenità, accetto la Croce e perdono, dal profondo del cuore, quanti, dentro e fuori la Chiesa, hanno voluto colpirmi”: non sfuggirà qui il richiamo esplicito a quella parte del mondo vaticano che non ha mai potuto sopportare il monsignore napoletano caro a Giovanni Paolo II (che, apprezzandone le grandi doti, l’ha messo a capo della macchina organizzativa del Giubileo e poi creato cardinale prefetto di Propaganda fide). Intanto a Napoli il cardinale Sepe ha raccolto una forte e convinta solidarietà da parte dei cittadini di ogni colore, che lo riconoscono – per quanto ha fatto di concreto in questi anni a favore della città, risvegliandone il senso di legalità e ridando voce alla speranza, pur in un contesto difficilissimo – come il punto di riferimento più alto per la riscossa civile partenopea.

    In sua difesa è sceso anche il cardinale Stanislaw Dziwisz, già segretario particolare di papa Wojtyla. In un’intervista a Repubblica del 22 giugno, l’arcivescovo di Cracovia ha dichiarato: “Conosco il cardinale Sepe come persona e pastore capace, intelligente, sempre pronto ad aiutare gli altri, incapace di fare del male a nessuno. In ogni posto dove ha lavorato è sempre stato all’altezza e ha lasciato ottimi ricordi”. Ha poi rilevato il settantunenne porporato polacco: “E’ stato in Segreteria di Stato, nelle congregazioni e nelle nunziature, lavorando sempre con scrupolo e con entusiasmo. Il suo capolavoro è stato senza dubbio l’organizzazione del Grande Giubileo del 2000. Con altrettanto entusiasmo ha poi presieduto Propaganda fide. Ora a Napoli, da arcivescovo, si sta rivelando anche un grande pastore vicino alla gente comune, a chi soffre, agli immigrati, dando a tutti gioia e speranza di riscatto. Non credo proprio che questa triste vicenda lo fermerà”.

    Venerdì 28 maggio è stato presentato a Roma, presso le Suore Guanelliane, un libro di don Giuseppe Crea intitolato Agio e disagio nel servizio pastorale (EDB, Bologna), con introduzione dell’arcivescovo Bruno Forte. Tra i relatori il cardinale honduregno Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa: “A volte – ha detto tra l’altro – anche i sacerdoti possono sentirsi sopraffatti dalle tante sfide pastorali al punto da sottostare a condizioni di superlavoro che col tempo si rivelano nocive dal punto di vista psicologico”. In altre parole “quando il lavoro diventa troppo, quando le richieste sono eccessive e insistenti, oppure quando avvertono che hanno tanti problemi da risolvere, anche i sacerdoti rischiano di stancarsi”. Qui il porporato salesiano ha ricordato il ‘lamento’ di un giovane sacerdote: Sembra quasi che dobbiamo avere sempre una soluzione a tutto. Ha notato più in là il presule sessantasettenne: “L’attività pastorale coinvolge i sacerdoti non soltanto nelle cose da fare, ma anche in relazioni emotivamente intense e stressanti”: con i giovani, con gli anziani, con le coppie in difficoltà, con gli ammalati, sempre “devono far fronte a richieste relazionali di continua attenzione, ascolto, partecipazione, compassione”.

    E’ evidente che, “se tutto questo non è riequilibrato con una sana vita interiore, può far emergere un senso di insicurezza o di inadeguatezza”, può anche far sorgere “la paura di fallire o di sentirsi giudicati”. Una situazione molto sfavorevole per l’efficacia della pastorale, che può essere evitata con “un’attenzione verso se stessi altrettanto amorevole di quella verso gli altri”. Più in generale, data la frequenza del problema, occorre “ripensare profondamente la formazione permanente dei presbiteri, svincolandola da una concezione pressappochista e superficiale oppure da una visione semplicistica e poco competente che la relega a eventi straordinari d’aggiornamento o a miracolistici anni sabbatici”. No, ha concluso il cardinale Rodriguez Maradiaga: “Bisogna riscoprire la formazione permanente come un vero metodo di vita”.  

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