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    CARDINALI E SENTENZA EUROPEA SUI CROCIFISSI

    ROSSOPORPORA DI NOVEMBRE 2009 SU 'IL CONSULENTE RE ONLINE'

    In questa occasione si parlerà in particolare delle reazioni alla sentenza della Corte di Strasburgo sui crocifissi da parte dei cardinali Kasper, Bertone, Bagnasco, Vallini, Re, Tonini, Tettamanzi, Schoenborn, Dziwisz. Su altri argomenti dei cardinali Tettamanzi, Terrazas Sandoval, Napier, Murphy-O’Connor, Coppa

     

    Della sentenza di Strasburgo sulla presenza del Crocifisso nelle aule della scuola pubblica italiana (presa il 13 ottobre all’unanimità dai sette giudici della seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, comunicata il 3 novembre) ci occupiamo in questo numero con la controcopertina, l’intervista al vescovo Gianni Ambrosio, l’articolo di Giuseppe Di Leo sulle reazioni della stampa italiana. Qui in Rossoporpora riferiamo di alcune reazioni cardinalizie in materia, incominciando dall’invito del cardinale Walter Kasper, che nel Corriere della Sera del 4 novembre invita alla riscossa: “Penso (…) che noi cristiani stiamo dormendo. Questa manifestazione di secolarismo aggressivo dovrebbe essere un segnale per svegliarci e alzare un po’ la voce”. Per il presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani “in alcuni ambienti europei, a Strasburgo e a Bruxelles, vogliono costruire una realtà che non sarebbe più Europa, perché senza cristianesimo l’Europa non è. Tale tendenza antistorica esiste, ha potere e questo non si può tollerare”. Perciò – rileva significativamente il settantaseienne porporato tedesco – “anche i politici che si dicono cristiani dovrebbero parlare…”. Il cardinale Kasper è “costernato all’idea che un tribunale europeo abbia potuto prendere una decisione del genere”, che “è radicalmente antieuropea”. Inoltre “togliere il Crocifisso dalle aule è una violazione del sentire della maggioranza: i cristiani sono e restano la gran parte, soprattutto in Italia, e la maggioranza non può essere orientata dalla minoranza”. C’è da aggiungere che, oltre a essere un simbolo religioso, “la Croce è un simbolo culturale, (…) dice da dove veniamo, ha unito il continente, ci sono Stati come la Svizzera o la Svezia che l’hanno nella bandiera”. I cristiani devono svegliarsi, “mostrando la loro presenza”. Postilla qui incisivamente il porporato: “Siamo in democrazia, no? Abbiamo le elezioni. Io mi sono sempre lamentato che così poche persone vadano a votare per eleggere il Parlamento europeo. E i parlamentari devono rispondere a coloro che li hanno eletti”.     

     

     

    “Io dico purtroppo che questa Europa del Terzo Millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute prima del primo novembre e ci toglie i simboli più cari. Questa è veramente una perdita. Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”: non lesina un giudizio tagliente il cardinale Tarcisio Bertone il 4 novembre in occasione di una visita presso l’ospedale del Bambin Gesù sul Gianicolo. Che cosa dobbiamo fare?ha proseguito il Segretario di Stato vaticano: “Togliere tutti i Crocifissi? Penso a tutte le opere d’arte che presentano il Crocifisso e la Pietà, mi domando se questo sia un segno di ragionevolezza oppure no”. In ogni caso “la Santa Sede farà i passi che le spettano nel senso di stimolare, come ha detto anche la conferenza episcopale italiana, i cristiani a reagire”. Di più: (oltre al Governo italiano) “spero che siano anche altri Governi a fare ricorso per una cosa che non riguarda solo l’Italia, ma spazia anche oltre”. Tre giorni dopo a Torino, in occasione dell’assemblea generale della Conferenza italiana Superiori maggiori (Cism), il porporato settantacinquenne ha espresso un auspicio: “Speriamo che la reazione di un po’ tutto il mondo, non solo di quello cristiano, susciti una presa di coscienza e un senso di responsabilità anche nei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Raccontando poi che di aver ricevuto il 5 novembre il presidente del Kazakhstan, “il quale ha dato una bella testimonianza sulla presenza delle opere della Chiesa cattolica in quelle terre”, dove “non si pensa affatto di togliere il Crocifisso dalle sedi cattoliche”.

    Da parte sua il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, è intervenuto più volte sulla vicenda. Sul sito web di Avvenire ha detto il 5 novembre che la sentenza “non accetta che il segno del Crocifisso sia per il credente un segno della propria fede e per il non credente il segno dell’umanesimo integrale che ha la propria radice nel Vangelo”. Il giorno seguente il porporato sessantaseienne ha parlato del carattere “fortemente ideologico” della decisione di Strasburgo. Ampio spazio ha riservato poi all’argomento nell’ambito della prolusione di Assisi del 9 novembre in apertura della sessantesima assemblea generale della Cei. Ha rilevato dapprima l’arcivescovo di Genova che “alla base del cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o strutture burocratiche, perché le une e le altre – pur necessarie – non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile per sentirsi comunità”. E’ vero invece che “l’idea di un’Europa unita si è fatta largo nella mente e nel cuore dei Padri fondatori congiuntamente alla constatazione di quanto il Vangelo aveva lungo i secoli inciso e scavato nella civiltà del vecchio continente”. Per questo la sentenza di Strasburgo “è alquanto surreale” (definizione ribadita anche nella conferenza-stampa conclusiva di giovedì 12): infatti, “lungi dal minacciare le responsabilità educative della famiglia e quelle laiche di ogni Stato moderno, il Crocifisso nella molteplicità dei suoi significati può solo suggerire valori positivi di inclusione, di comprensione reciproca, in ultima istanza di amore vicendevole”. Il “sorprendente pronunciamento” non può non far “riflettere su una certa ideologia che non rinuncia a far capolino nelle circostanze più delicate della vita continentale, quella di un laicismo per cui la neutralità coinciderebbe con l’assenza di valori, mentre la religione sarebbe necessariamente di parte”. Ha qui evidenziato il cardinale Bagnasco che “una simile posizione, oltre ad essere un’impostura, non è mai stata espressa dalla storia e neppure dalla volontà politica degli europei”. E’ allora chiaro – affonda il presidente della Cei - che siamo di fronte a “un tentativo di rivalsa che esigue minoranze culturali, servendosi del volto apparentemente impersonale della burocrazia comunitaria, perseguono sulle libere determinazioni dei popoli”. Proseguendo su questa strada, “l’Europa si allontana sempre più dalla gente”. 

    In un’intervista del 4 novembre al Tg Lazio il cardinale Agostino Vallini ha detto che “la sentenza dimostra di non rispettare la storia, la cultura e l’esperienza religiosa del popolo italiano”. Per il cardinale Vicario “la libertà religiosa è il diritto di ogni uomo di esprimere liberamente la propria fede, anche in pubblico” e “la presenza del Crocifisso non ha mai ostacolato altri nell’esercizio dello stesso diritto”. Perciò “anche la laicità dello Stato va interpretata nel rispetto della libertà religiosa. Non c’è contrapposizione”.

    Ancora il 4 novembre, rispondendo ad alcune domande di Radio Vaticana, il cardinale Giovanni Battista Re ha rilevato di aver appreso della sentenza “con dolore e con sorpresa. Con dolore, perché si tratta di un’offesa al simbolo della religione della stragrande maggioranza degli europei: cattolici, ortodossi, luterani, anglicani, calvinisti… Con sorpresa, perché il Crocifisso è simbolo di valori che stanno alla base dell’identità europea”. Il settantacinquenne prefetto della Congregazione per i vescovi si chiede poi: “Per chi appartiene ad altre religioni, ma vive in Europa e frequenta le scuole qui, è proprio così nocivo che veda il simbolo del cristianesimo e conosca qualche cosa della religione che più di tutto ha contribuito a forgiare l’Europa? E’ proprio inutile che conosca le tradizioni popolari e le tante manifestazioni culturali e artistiche ispirate dal cristianesimo?”. A proposito dell’invocata laicità delle istituzioni ha osservato il porporato bresciano: “I veri sostenitori della laicità non devono dimenticare che l’autore del primo messaggio di laicità è stato proprio Nostro Signore Gesù Cristo, quando ha detto: Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”.

    Il cardinale Ersilio Tonini il 4 novembre parla di “violazione dei diritti fondamentali della persona” e prefigura l’eventualità (non così peregrina) che “si arrivi a togliere i simboli religiosi anche dai cimiteri”.  Osserva il cardinale Dionigi Tettamanzi già il 3 novembre, a margine della presentazione di un suo libro alla Bocconi, riferendosi alle giustificazioni date dai sette giudici di Strasburgo: “Non mi sembra affatto convincente né il dire che c’è una violazione del diritto educativo dei genitori né tanto meno una violazione della libertà di religione”. Per l’arcivescovo di Milano in Italia “la storia, la società e la cultura hanno chiarissimi i segni del cristianesimo; quindi rifiutare questi segni significa evadere dalla verità concreta della storia”. 

    Per il cardinale Christoph Schoenborn “la sentenza della Corte è semplicemente inccettabile. La croce nelle aule non viola la libertà di religione e neanche la libera espressione di convinzioni religiose differenti”. Del resto in Austria vige “una situazione giuridica chiara: in tutte le scuole in cui la maggioranza degli scolari appartiene alla religione cristiana, deve essere presente una croce in tutte le aule”.  

    Il 6 novembre da Cracovia ecco il timore del cardinale Stanislaw Dziwisz che quanto “incomprensibilmente” stabilito da Strasburgo “possa mettere a rischio anche la libertà religiosa in Europa, perché così facendo si tenta di eliminare il cristianesimo dalla vita pubblica”.

    Domenica 25 ottobre Milano ha ospitato un avvenimento di rilievo non solo per la vita religiosa, ma anche quella civile della metropoli lombarda: la beatificazione di don Carlo Gnocchi, “un imprenditore della carità elevato agli onori degli altari” (come titola L’Osservatore Romano del giorno successivo). In piazza Duomo circa cinquantamila i presenti al rito della beatificazione – presieduto dall’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi – e alla santa messa, presieduta invece dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Nell’omelia, intitolata “Solo la carità può salvare il mondo”, l’arcivescovo di Milano ha rilevato tra l’altro che “è nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita. Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino – ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore”. Il cappellano degli Alpini nella tragica spedizione di Russia aveva in sintesi “la vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio”.

    Un altro tratto caratteristico di don Gnocchi è il suo coinvolgimento “con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società. E lo ha fatto – ha precisato il cardinale Tettamanzi – coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia”. Il suo è stato “un impegno leale nel mondo, senza sminuire – anzi arricchendo – il suo essere di sacerdote”. L’odierno beato era “lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura”. Del resto “era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile”. Che cosa auspicava don Carlo per il mondo moderno? “Un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; la personalità cristiana, cioè cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani, che guardano al mondo non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore”. Ha osservato l’arcivescovo di Milano: “Sono parole preziose anche per noi: amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la speranza grande che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male”.

    Nella conclusione dell’omelia il cardinale Tettamanzi ha rievocato un episodio dei funerali di don Gnocchi, la cui santità la Chiesa ha riconosciuto con il rito della beatificazione, “una santità che in questa piazza, cinquant’anni fa, un ragazzo scelto dall’allora arcivescovo Montini per portare il suo saluto al papà di tutti i mutilatini e poliomielitici profeticamente riconobbe. Tutti noi oggi facciamo nostre le sue parole: Prima ti dicevo:Ciao, don Carlo. Oggi ti dico: Ciao, san Carlo”.  

    In Bolivia si avvicina il giorno delle elezioni politiche: si terranno il 6 dicembre, in un Paese inquieto, in cui il presidente Evo Morales e il suo governo non mancano di accusare in modo ricorrente la Chiesa cattolica di manovre oscurantiste e di “addormentare il popolo con la preghiera” (riedizione della “religione oppio dei popoli” in salsa andina). In vista dell’appuntamento elettorale il cardinale Julio Terrazas Sandoval ha chiesto che si voti non secondo paura, ma secondo coscienza, fondandosi sui contenuti della dottrina sociale della Chiesa. Ha evidenziato il settantatreenne arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra che “ci sono alcuni punti chiave ai quali non si può rinunciare: il diritto alla vita fin dal concepimento, il diritto dei genitori ad educare i propri figli, il diritto ad avere istituti di istruzione, il diritto di tutto ciò che contiene la libertà di pensiero, il diritto che la Chiesa cattolica possa continuare il suo lavoro”.

    Pur nell’incertezza dei tempi il porporato ha invitato “a coltivare la speranza”: anche nell’effervescenza elettorale i cristiani devono comprendere sempre più “che nessuna parola sostituisce la parola di Dio e che nessuna parola, che giunga alla nostra coscienza, può offuscarla”. Tanto più che “nessuna realtà (anche quella ricca di entusiasmo) può far dimenticare che i cristiani sono nati per dimensioni molto più grandi, per realtà molto più profonde e imperiture”. Si ricorderà che lo stesso cardinale era stato fatto oggetto nella notte sul 29 aprile di quest’anno di un attentato dinamitardo, che aveva causato danni alla porta principale della sua residenza: Julio Terrazas Sandoval non era in casa e nessuno era stato ferito. L’arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra aveva poi solidarizzato vigorosamente a luglio con il confratello Oscar Andrès Rodriguez Maradiaga, accusato di essere filo-golpista in Honduras (vedi “Rossoporpora” di settembre e di ottobre 2009): “Non possiamo stare in silenzio – aveva detto – davanti allo scandalo di tante calunnie contro il nostro fratello cardinal Rodriguez e ci teniamo a dirlo con chiarezza”.  

    Dell’analisi cruda dei mali africani fatta da non pochi partecipanti al recente Sinodo abbiamo dato conto in Rossoporpora di ottobre. Riferiamo invece adesso di due risposte date dal cardinale Wilfrid Fox Napier e contenute in un’intervista a L’Osservatore Romano del 23 ottobre. La prima, riguardante lo spazio dato al Sinodo dai massmedia mondiali e in particolare africani: “E’ stato molto poco” – ha rilevato il sessantottenne arcivescovo di Durban – In Sud Africa solo un giornale, peraltro quello cattolico, si è occupato del Sinodo. In altre parti dell’Africa se ne parla solo se ci sono stazioni radiofoniche cattoliche”. Insomma “le cose spirituali, le cose religiose non vengono riportate, a meno che non si tratti di questioni controverse. Allora sì che le pubblicano!” La seconda risposta riguarda la possibilità di esportare la via sudafricana alla democrazia. Ha osservato qui il cardinale sudafricano: “Dipende dalle situazioni. Nel nostro caso si è verificata una convergenza di circostanze. L’unica cosa certa è cheDio aveva un disegno speciale per noi e crediamo che l’abbia attuato”. Ci si può chiedere perché sia accaduto solo in Sudafrica.. “Forse abbiamo potuto contare sulla persona giusta al momento giusto. Mi riferisco a Nelson Mandela”. Il quale “persino dal carcere in cui era stato relegato è riuscito a stimolare il Governo al cambiamento”. E “fortunatamente i governanti lo hanno ascoltato”. Mandela “non a caso, mentre era ancora in prigione, aveva già avviato negoziati, proseguiti poi quando è stato liberato,  insieme con gli altri leader del movimento. Le miogliori menti del Paese si sono riunite nella Convention for a democratic South Africa. Tra i protagonisti c’erano Nelson Mandela e Frederik Willem de Klerk. Entrambi avevano alle spalle validi collaboratori che li aiutarono nel processo di negoziazione. Ma chi ne parla?”

    Giovedì 29 ottobre il cardinale Cormac Murphy-O’Connor ha tenuto una conferenza presso l’abbazia benedettina di Worth, nel Sussex. Dei suoi contenuti ha dato notizia – sotto il titolo: Cattolici e anglicani capaci di proclamare insieme la fede comune - L’Osservatore Romano del primo novembre. Esordendo l’arcivescovo emerito di Westminster ha rammentato la visita di papa Wojtyla (29 maggio 1982) alla cattedrale anglicana di Canterbury: “Ricordo bene (…) la mia commozione quando vidi papa Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Runcie camminare fianco a fianco. In quel giorno tra noi cattolici e i fedeli della Comunione anglicana c’erano grandi speranze di raggiungere il traguardo di una reale e sostanziale unità”. A tale proposito, ripercorrendo il cammino fatto come co-presidente per sedici anni della Anglican-Roman Catholic International Commission, il porporato settantasettenne ha rilevato che “alcune delle classiche dispute alla radice della nostra dolorosa divisione sono oggi basilarmente risolte grazie a un nuovo consenso sulla dottrina fondamentale”. Tanto che oggi cattolici e anglicani “sono capaci di proclamare insieme la comune fede apostolica, perché condividono il Vangelo come Parola di Dio e buona novella per tutta l’umanità”. Riferendosi al recente documento vaticano sulla ammissione nella Chiesa cattolica di gruppi anglicani, ha rilevato il cardinale che “ci sono alcuni gruppi di anglicani che da anni coltivano la speranza di trovare un modo nuovo per arrivare alla piena comunione con la Chiesa cattolica. La generosa risposta della Santa Sede è stata quella di erigere una struttura canonica che permetterà agli ex-anglicani di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica pur preservando gli elementi distintivi del patrimonio spirituale anglicano”.  Qui il presule, che negli anni si è sovente espresso in modo critico verso decisioni puntuali di Roma (vedi anche il suo dissenso nell’approccio scelto con i lefebvriani), ha voluto personalmente “ribadire che la risposta di papa Benedetto XVI non è una riflessione o un commento sulla Comunione anglicana nel suo complesso o su come procedono le attuali relazioni ecumeniche”. Una precisazione da cui emerge tutta la preoccupazione del cardinale Murphy-O’Connor che il dialogo cattolico-anglicano condotto fin qui venga indebolito o addirittura vanificato dalla decisione papale.

    A vent’anni dal crollo dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale il cardinale Giovanni Coppa, nunzio apostolico nell’allora Cecoslovacchia a partire dal 1990, ricorda il clima che si respirava a Praga nei mesi successivi alla Rivoluzione di velluto (novembre-dicembre 1989: “C’ero anch’io quando la democrazia ha mosso i primi passi in Cecoslovacchia” – rammenta il porporato ottantaquattrenne e aggiunge: “Mi sentivo imbarazzato davanti a tanti sacerdoti che, incontrandomi, si inchinavano e volevano baciare il mio anello”. Perché “ero io, che dovevo inchinarmi davanti a loro, davanti al loro coraggio, davanti alla loro sofferenza”. Continua il cardinale nato ad Alba: “Ricordo che durante la prima messa celebrata in cattedrale ho detto ai fedeli che la gremivano di sentirmi piccolo di fronte a loro, poiché avevano tanto sofferto per la loro fede e per la Chiesa”. Certo “la repressione era stata dura, aveva lasciato ferite profonde, difficili da rimarginare. Ma la gioia era tanta”.  La ricostruzione del tessuto della Chiesa locale non fu semplice: “Un grande impulso a ricominciare con entusiasmo venne da Giovanni Paolo II”. Qui annota il cardinale Coppa: “Mi ricordo le sue visite e devo dire che mi colpì una cosa: la risposta della gente andò via via diminuendo, dalla prima visita del 1990 all’ultima del 1997”. Repubblica ceca, terra difficile… tuttavia la recente visita di papa Ratzinger non è stata così deludente: “Per me è stata una sorpresa vedere quanta gente si è stretta attorno a Benedetto XVI, soprattutto a Brno e a Starà Boleslav”. Ed anche sotto la nunziatura, a Praga, “c’è stata sempre tanta gente ad aspettare il Papa al suo rientro per salutarlo”. Non c’è dubbio, rileva poi il porporato piemontese, che il cammino della Chiesa nella Repubblica ceca resta in salita: “Tuttavia essa è cresciuta molto in questi anni” e “mi auguro che adesso riesca a sanare le controversie che sono ancora aperte con lo Stato e che si possa dedicare ancora più intensamente al lavoro pastorale, soprattutto con i giovani che hanno dato una bella dimostrazione della ricchezza spirituale da cui sono animati”.   

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