10 FEBBRAIO 2014: RICORDARE FOIBE ED ESODO ISTRIANO – www.rossoporpora.org – 10 febbraio 2014
Nel 2004 in Italia è stata istituita la Giornata del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, fissata al 10 febbraio di ogni anno, anniversario del Trattato di Parigi del 1947. Abbiamo ricordato la tragedia con un gruppo di studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Via Asmara 28” di Roma. Grande l’attenzione e la compartecipazione. Riproduciamo anche una testimonianza drammatica di quei giorni, raccolta da Lucia Bellaspiga per ‘Avvenire’.
Con il Trattato di Parigi parte dell’Istria e la Dalmazia furono assegnate alla Jugoslavia. Il ‘territorio libero’ di Trieste fu suddiviso in Zona A, che comprendeva la città, e in Zona B, con una parte di Istria. Nel 1954 la Zona A fu assegnata all’Italia, la B alla Jugoslavia (nel 1975 il trattato di Osimo sancì definitivamente l’appartenenza jugoslava della stessa Zona).
I tragici avvenimenti di quel periodo si possono suddividere in tre momenti: la prima ondata di infoiba menti da parte dei partigiani comunisti agli ordini del maresciallo Tito del settembre-ottobre 1943; la seconda ondata incominciata nell’aprile 1945 e proseguita anche nel 1946; l’esodo di gran parte degli italiani dalle terre istriane e dalle città dalmate iniziato già nel 1943 ma ripreso massicciamente a partire dal 1945, con l’apice nel 1947 (con il Trattato di Parigi) e continuato poi, diminuendo nei numeri, fino alla seconda metà degli Anni Cinquanta. Le vittime delle foibe sono difficilmente quantificabili, date anche le difficoltà di avere a disposizione anagrafi comunali spesso distrutte dai nuovi ‘liberatori’: le stime oscillano tra i 5 e i 15mila morti (in buona parte italiani – pure afascisti e antifascisti - oltre a diversi sloveni e croati anticomunisti). Per l’esodo le cifre sono più precise: tra i 250 e i 300 mila italiani dovettero lasciare la loro patria per approdare su sponde italiane spesso matrigne, almeno là dove signoreggiava il partito comunista.
Di tutto questo abbiamo parlato lunedì mattina 10 febbraio agli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Via Asmara 28” di Roma, nell’ambito delle attività della ‘Settimana dello studente’. Grande l’interesse per il tema in un’aula gremita soprattutto da studentesse di IV e V liceo. Tra i documenti distribuiti e letti insieme un’intervista allo storico triestino Raoul Pupo (membro tra l’altro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia) e una testimonianza raccolta per ‘Avvenire’ da Lucia Bellaspiga, figlia di esuli istriani. La testimonianza, drammatica anche nei dettagli, ha commosso l’uditorio. Il professor Domenico Morace ha poi integrato la nostra relazione con un utile ‘excursus’ sulla complessa situazione jugoslava in quegli anni.
Di seguito riproduciamo la testimonianza raccolta da Lucia Bellaspiga per ‘Avvenire’ del 10’ febbraio 2011.
UNA TRAGEDIA VICINA
«La gente spariva di notte». L’incubo è rimasto negli occhi di Piero, che allora aveva nove anni e, di notte, vide portar via suo padre, legato col filo di ferro: erano le due tra il 3 e il 4 maggio 1945, quando nella sua casa di Gallesano, alle porte di Pola, in Istria, fecero irruzione in quattro, tre in divisa scalcinata e berretto con la stella rossa di Tito, uno in abiti civili che parlava italiano: «Seguici in caserma, ti dobbiamo interrogare». La guerra è appena finita, i tedeschi sono sconfitti, e mentre il resto d’Italia festeggia la liberazione dal nazifascismo e l’arrivo degli alleati anglo-americani che portano ventate di rinascita, nella Venezia Giulia la “liberazione” avviene per opera degli jugoslavi: al nazismo succede il comunismo. E le foibe. «Mentre gli altri italiani scendevano in strada gioiosi, noi conoscevamo i giorni dell’ira e delle vendette. E andavamo a dormire col terrore di non svegliarci nel nostro letto».Suo padre era “colpevole” di avere un negozio di generi alimentari, altri di essere stati maestri di scuola, postini, messi comunali, sacerdoti, carabinieri… L’ordine era di de-italianizzare Istria, Fiume e Dalmazia, e il genocidio fu scatenato in due ondate: la prima dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando sparirono in foiba settecento persone nella sola Istria, la seconda a guerra finita, dal maggio del 1945 in poi, quando gli jugoslavi occuparono l’intera Venezia Giulia fino a Trieste. «Nel ’43 in famiglia avevamo avuto il primo di sette lutti – racconta oggi Piero Tarticchio, 75 anni, artista e scrittore, testimone in centinaia di scuole italiane di quanto avvenne sull’altra sponda dell’Adriatico – quando don Angelo Tarticchio, cugino di papà, venne arrestato, torturato, mutilato orrendamente e poi, ancora vivo, gettato in foiba con una corona di filo spinato calcato sulla testa per dileggio. La sua salma fu recuperata dai vigili del fuoco di Pola insieme ad altre 243…». Al funerale dello zio sacerdote Piero andò tenendo per mano suo papà: «Ricordo che me la stringeva forte. Non poteva prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe toccato a lui». La storia di Piero – come avviene in altri olocausti – è tragicamente ripetitiva: nelle case gli sgherri di Tito che irrompono, il furto volgare di tutto ciò che possono arraffare, il pretesto di un interrogatorio sulla base di accuse assurde, un padre o una madre trascinati via e spariti nel nulla. Come rivelano montagne di documenti, gli alleati anglo-americani sapevano e lasciavano fare. Racconta Tarticchio: «Milovan Gilas, teorico del Partito comunista jugoslavo, nei suoi diari annota “dovevamo fare in modo che gli italiani se ne andassero da quella terra e così fu fatto”. Nel 1992 lo ribadì in un’intervista a Panorama, confermando una pulizia etnica decretata ufficialmente». Negli occhi del piccolo Piero, e di centinaia di bambini come lui, l’ultima immagine del padre spinto fuori con il calcio del fucile e mai più tornato. Nelle orecchie il pianto delle donne: «Ancora oggi non riesco ad ascoltare le donne che piangono, sto male…». E in tutte le case, poi, una madre che i figli di allora, sopravvissuti alla mattanza, oggi raccontano così: «Con un coraggio impressionante andò al comando della polizia segreta di Tito a Carlovac a chiedere notizie del marito. Ricordo un particolare: dopo la deportazione di papà il mio solo privilegio fu di dormire con la mamma nel lettone e lei, sapendo del mio trauma, mi lasciava toccare il lobo del suo orecchio…. aveva un orecchino di oro e perla, al ritorno da Carlovac non lo aveva più». Per qualche settimana suo padre fu recluso nel castello di Pisino, a 30 chilometri in treno da casa, e tutti i giorni madre e figlio si recavano là sotto: «C’era un’inferriata e a uno a uno i prigionieri si sporgevano e salutavano. Un mattino nessuno si affacciò più». Un vecchio raccontò che erano stati caricati sui camion e portati a Fiume per il processo, ma a Fiume non giunsero mai. «Tutti gli anni, nel giorno dei Morti, mi reco in Istria – racconta Tarticchio – e porto un mazzo di fiori in un cimitero qualsiasi… Sono bellissimi i cimiteri istriani, andateli a vedere. Scelgo la tomba più disadorna, la tomba di uno sconosciuto, non guardo nemmeno se è di un italiano, è il solo modo che ho per onorare mio padre. Sulle foibe però non vado, fa troppo male: i lager sono diventati veri santuari, sulle foibe nemmeno una croce». Come tutte, anche la storia di Piero finisce con la diaspora. «La mamma, saputo che rischiavamo lei i lavori forzati, io il collegio di rieducazione comunista a Maribor, raccolse le 143 lire che ci restavano e mi portò via a piedi di notte, strisciando sotto i reticolati, fino a Pola, poi da lì sulla motonave Trieste l’addio per sempre alla mia amata terra che il Trattato di Parigi il 10 febbraio, oggi Giorno del Ricordo, nel ’47 cedette alla Jugoslavia: l’Italia intera aveva perso la guerra, ma solo noi pagavamo il suo debito». Iniziava così l’esodo dei 350mila. Per 57 anni la loro storia fu negata da quell’Italia per cui avevano perso tutto, e che anche oggi ha la memoria corta: «Ho sfogliato 31 libri di storia per i licei, solo due raccontano le foibe… Ma quale memoria pretendere da un’Europa che dimentica anche se stessa, che nega le proprie radici cristiane e stacca i crocifissi dai muri?».