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    INTERVISTA ALL'ATTRICE CRISTIANA CAPOTONDI

     

    INTERVISTA ALL'ATTRICE CRISTIANA CAPOTONDI - di GIUSEPPE RUSCONI - www.rossoporpora.org  - 'IL CONSULENTE RE' DI LUGLIO 2006 

     

    Un tardo pomeriggio di mezzo giugno, in piazza Santa Maria in Trastevere. Davanti a una delle chiese più belle, preziose e socialmente impegnate di Roma, la fontana affollata di studenti giocosi, i bar di turisti rilassati, tre chitarre con altrettante ugole verso San Calisto… e Cristiana Capotondi.

    Giovane attrice, a Napoli ha ricevuto da poco il “Premio Vittorio Mezzogiorno” per attrici “emergenti”, consegnatole dalla figlia Giovanna e dal regista Giuliano Montaldo. In verità Cristiana conosce il set da quando, poco più che dodicenne, nel 1993 ha esordito con la miniserie televisiva “Amico mio”. Tra i suoi maggiori impegni a livello televisivo la serie “Orgoglio” (dove interpretava la principessa Aurora). Per il grande schermo, reduce dal successo di “Notte prima degli esami” (era la liceale Claudia), sta per incominciare le riprese de “I viceré”, romanzo storico di Federico de Roberto, nella versione cinematografica di Roberto Faenza; l’attende una parte impegnativa come quella della principessa Teresa della stirpe degli Uzeda. Presenterà a luglio anche la serata finale del festival di Giffoni, mentre in autunno la vedremo sul piccolo schermo in “Joe Petrosino” con Beppe Fiorello. Però Cristiana Capotondi, laureata in Scienze della comunicazione con 110 e lode,  è un’attrice interessante anche per altri motivi, ad esempio la sua nascita in una famiglia in cui cattolici ed ebrei convivono da generazioni. Di questo e di altro parliamo nell’intervista che segue, in cui non mancano spunti di riflessione, momenti molto ‘sentiti’ e lampi di divertimento…

     

    Cristiana, che hai fatto oggi?

     

    Le prove della parrucca e degli abiti della principessa Teresa per il film sui “Viceré”, le cui riprese inizieranno tra poco….

     

    Tratto dal romanzo verista di Federico de Roberto, diretto da Roberto Faenza, il film ti vede interpretare una parte importante e non facile, quella della figlia del principe siciliano e catanese Giacomo Uzeda, erede di una stirpe di nobili natali e di comportamenti perlopiù ignobili di cui si raccontano trentasette anni di storia, dal 1855 al 1882… Tu Cristiana ‘volevi’ essere parte del film e interpretare la parte di Teresa… perché?

     

    Innanzitutto a me i film in costume piacciono, poi perché il libro racconta un’epoca che è quella dei rivolgimenti politici e sociali che hanno contraddistinto il nostro Paese nel secondo Ottocento, una pagina importante di storia che merita di essere ben conosciuta. In un caso come questo il cinema così come la televisione può essere uno strumento informativo ed educativo di prima importanza, rilevante socialmente, adeguato per accrescere il nostro patrimonio culturale. Il romanzo di de Roberto veniva fino a qualche tempo fa utilizzato come testo di accompagnamento nel corso dell’anno, ora capita più raramente: il film dunque è anche un’occasione di recuperarlo. Poi sinceramente credo che raccontare delle esistenze che piegano volontà e sentimenti, che sacrificano la possibilità di rendersi felici  alla cosiddetta ‘ragion di Stato’ – nel nostro caso è la dignità del nome degli Uzeda – sia molto interessante dal punto di vista dell’attore. Teresa ad esempio sarà caratterizzata sempre dalla tensione tra il desiderio di essere felice e la consapevolezza di non poterlo essere proprio perché è un’Uzeda.

     

    Ma perché gli Uzeda, stirpe di ‘vicerè’,  non possono essere felici?

     

    Teresa sa che, se volesse essere felice, dovrebbe infangare (almeno così si riteneva) il nome della sua famiglia e far soffrire suo padre Giacomo. In realtà, negando concretezza ai suoi desideri, fa vivere un sentimento grande, quello dell’amore. Personalmente come Cristiana ritengo che un’espressione grande dell’amore paterno sia rendere felice la propria figlia; qui capita il contrario. Comprensibile per l’epoca.

     

    Quello di de Roberto è un affresco molto incisivo e a tratti anche truculento di un’epoca di cambiamenti che comportano crisi di identità e, nei gruppi di potere borbonici, anche spregiudicati salti della quaglia…che poi Tomasi di Lampedusa avrebbe efficacemente illustrato nel “Gattopardo”…

     

    L’affresco di de Roberto è fantastico anche perché fa emergere con grande pregnanza il carattere dei diversi personaggi. La sceneggiatura del film si giova della potenza descrittiva dello scrittore napoletano e se ridà ai personaggi lo spessore – quasi sempre consistente nella soddisfazione della ‘ragion di Stato’ - che hanno nel romanzo, evidenzia nei giovani Uzeda la tensione verso il cambiamento: in Teresa, nel fratello Consalvo, che - dapprima ribelle – si piegherà anche lui alla ‘ragion di Stato’ – conservando il potere come deputato di Catania anche nell’Italia sabauda.

     

    Prima di essere scelta come Teresa che cosa conoscevi di questo periodo della storia d’Italia?

     

    La spedizione dei Mille, le sue conseguenze, la proclamazione del Regno d’Italia nel marzo 1861, il completamento con la presa di Roma nel settembre 1870… insomma quegli sviluppi storici che normalmente si dovrebbero conoscere. Il peso sempre maggiore acquisito dalla borghesia a scapito della nobiltà, le condizioni sociali in cui versava la Penisola…Per il Sud, la distanza esistente tra nobiltà e popolo: i nobili come gli Uzeda si sentivano ‘altro’ dal popolo, che tra l’altro coltivava con più amore le tradizioni siciliane. Anche a Napoli, come si è visto con la Repubblica partenopea del 1799, il popolo era più legato alle tradizioni locali; e la Repubblica fallì anche perché si volevano immettere nel tessuto sociale usi e costumi francesi, estranei ai napoletani.

     

    “I vicerè’ di de Roberto è un romanzo che mette anche tristezza, perché racconta di tante miserie umane…

     

    Racconta l’incomunicabilità, la prevaricazione, l’invidia, l’arroganza, la tristezza profonda della solitudine. Tutto considerato, racconta di una condizione di profondo squallore all’interno della famiglia degli Uzeda.

     

    In tale condizione però emerge il ‘tuo’ personaggio di Teresa, forse l’unico personaggio ‘positivo’ del romanzo…

     

    Sì, è una boccata d’aria fresca: Teresa è una ragazza che è ancora inconsapevole, ingenua e si distingue fin da bambina dal fratello Consalvo, che proprio per la cattiveria con cui è trattato dal padre (in cui si riflette anche il trattamento ricevuto da quest’ultimo da parte della madre, Teresa), è più cosciente della situazione reale della famiglia. Teresa è pura, spontanea, fresca, prenderà consapevolezza del suo ambiente solo dopo essersi sposata con Michele (fratello del suo vero amore): ha un fortissimo senso del dovere, si rassegna al potere paterno, ne comprende le ragioni poiché anche dentro di lei c’è il seme della dignità del nome degli Uzeda, soprattutto però le è cara la serenità della famiglia tanto che funge da mediatrice con il fratello ribelle. Dello squallore Teresa è succube, è vittima…

     

    … e si rifugia nella fede in Dio, nella devozione frequente…

     

    Nella sceneggiatura emerge chiaramente che è anche depressa. Si rivolge alla beata di famiglia, alla beata Ximena. Il prostrarsi davanti alla beata non è tanto un prostrarsi davanti a Dio, ma alla beata di famiglia, di cui da bambina aveva paura…

     

     … quando ogni anno vedeva nella chiesa dei Cappuccini la bara dove custodivano il suo corpo e le veniva “un senso di fredda paura”… le atmosfere lugubri non mancano nel romanzo di de Roberto… Che cosa ti appassiona di più, che cosa pensi di poter dare al personaggio di Teresa?

     

    Mi piacerebbe darle grande grazia nella sofferenza e, sempre nella grazia, una grande rabbia per non essere riuscita a opporsi alla ‘ragion di Stato’.

     

    Quanto c’è in te del personaggio di Teresa? A volte l’attrice indossa un’altra pelle, a volte non ne ha bisogno se non in parte…

     

    C’è in me il desiderio di non vedere il male del mondo, così come Teresa non vorrebbe vedere il marcio nella sua famiglia. Sarebbe bello vedere le cose in modo pulito, come se sapessero sempre di buono e di pulito…

     

    Sei contenta di lavorare con Roberto Faenza?

     

    Lo speravo da quando ero bambina, perché ha fatto dei film molto belli. E’ stato un bel regalo ed è anche una prova difficile. Come regista ha un rapporto tale con gli attori che permette loro di compartecipare allo sviluppo del film. Ho dato ad esempio anch’io le mie opinioni sul copione.

     

    All’inizio di maggio a Napoli hai ricevuto il “Premio Vittorio Mezzogiorno” come miglior attrice giovane. Hai provato in quell’occasione un’emozione particolare?

     

    Sì, m’inorgoglisce molto. Credo che Vittorio Mezzogiorno abbia fatto una carriera di qualità a teatro, in televisione e nel cinema. Poi il premio me l’ha consegnato la figlia Giovanna e per me è stato un bell’onore: Giovanna ha grinta, è intensa, è una presenza anche fisica sullo schermo, è una vera artista che pennella il suo ruolo…

     

    Permettimi un’incisa, che ti piacerà da romanista quale sei: un po’ come Totti quando è in partita…

     

    Ecco un altro artista: l’ispirazione di Totti, faccia il cucchiaio o calci di collo o da trenta metri, è dello stesso genere di quella di Beethoven nella “Nona Sinfonia”, del Leonardo della “Gioconda”…. è una forma d’arte, è come rivedere Marlon Brando o la Magnani in “Roma città aperta”. Io rispetto molto il calcio. Alcuni calciatori secondo me sono vicini alla Chiesa come uomini, non tanto come fedeli, quanto perché sono portatori sani di valori umani che anche la Chiesa promuove… Tommasi, lo stesso Totti. Altri invece andrebbero allontanati, perché, se il calcio è anche veicolo d’educazione per i giovani, non meritano di essere un esempio per loro, sono diseducativi.

     

    A Napoli mi hai parlato anche della tua ammirazione per Giovanni Paolo II…

     

    E’ stato il ‘mio’ Papa. E’ stato eletto nel 1978; io sono nata due anni dopo e abbiamo fatto un lungo percorso insieme. Per me non era concepibile che morisse. Mi ha sempre richiamato un nonno, uno zio, una persona dolce di famiglia, con il suo modo di comunicare con i giovani… La sera della sua morte ero con mia sorella in un pub, abbiamo sentito da Vespa che era morto, siamo corse a san Pietro… c’era in quel momento un grandissimo silenzio… ma a me veniva voglia di battere le mani e di ritmare “Giovanni Paolo, Giovanni Paolo”. Quando passo da via della Conciliazione, mi sembra sempre che stia ancora per affacciarsi…

     

    Tu hai presentato sabato 15 ottobre lo spettacolo per i bambini della Prima Comunione in piazza san Pietro, prima dell’arrivo di Benedetto XVI…

     

    Papa Ratzinger è il Papa dei bambini, ha un sorriso dolce. Giovanni Paolo II anche da anziano aveva un’immagine molto massmediatica e nel contempo molto dolce; questo Papa ha caratteristiche diverse, credo che sia più timido, meno portato naturalmente a colloquiare con la gente, non lo so… avrò tanto tempo per capirlo. Ma sono contenta per come ha sorriso ai bambini; il sorriso è quello di un uomo buono.

     

    Giovanni Paolo II non sempre era dolce: con i giovani era esigente, a volte – ma in particolare con gli adulti – ha usato una sorta di frusta verbale…

     

    La cosa più bella che ricordo di Giovanni Paolo II è quando andò ad Agrigento nella Valle dei Templi, dopo gli attentati a Falcone e Borsellino e urlò ai mafiosi con voce tonante e nel contempo rotta: “Convertitevi! Pentitevi!”. Mai pensavo che un papa potesse gridare così energicamente, perché normalmente si pensa che un Papa tra le sue caratteristiche abbia preminente la mitezza. Ha avuto un gran coraggio, è andato lì sdegnato nero, aveva il pastorale in mano, ha urlato come non mai, era bellissimo: quando rivedo quelle immagini, ogni volta mi vengono i brividi. Non l’avevano fatto capi di Stato, l’ha fatto lui. Ed era giusto farlo.  

     

    Cristiana, dal punto di vista religioso sei cresciuta in una famiglia con doppia appartenenza, cattolica per parte di mamma, ebraica per parte di padre. Dei rapporti tra le due comunità parliamo nell’intervista al cardinale Kasper. E tu come vivi questa circostanza, che in ogni caso ti permette di assaporare frutti diversi, ma di uno stesso albero?

     

    Mi ritengo proprio fortunata. Il papà di mia mamma, nonno Angelo Citone, era ebreo: nato nel 1908, diventato medico a 26 anni, innamoratosi di una ragazza cattolica, l’ha sposata nel 1944 dopo che i tedeschi avevano abbandonato Roma; ha avuto tre figli, tra cui mia madre. Nonno Angelo girava in bicicletta, con la stella di Davide, rischiando per curare i malati. Un mio grande desiderio è di piantare per lui un albero nel ‘Giardino dei Giusti’ in Israele. Spero proprio di poterlo fare.

     

    Già in casa di tuo nonno c’era anche una convivenza di religioni…

     

    Un misto vissuto felicemente, sempre con grande rispetto reciproco. Anche in casa nostra si ripete questa situazione e l’armonia regna sovrana. Dio è unico. Ho il grande dono – perché è veramente un dono enorme – di credere in Lui. Mi aiuta, mi solleva, è un confidente, un punto di riferimento sicuro…

     

    Che caratteristiche ha?

     

    E’ un padre generoso, protettore, che perdona…. È quello che significa la kippah: sentirsi la mano di Dio sulla testa. Nella religione ebraica c’è un grandissimo rispetto di Dio, tanto è vero che gli uomini devono presentarsi con la kippah sul capo.

     

    Chi è per te Gesù? 

     

    La sua figura è straordinaria, fondamentale: ha veramente rivoluzionato il mondo, ha promosso la nostra cultura nei suoi valori di fratellanza, di solidarietà, del perdono… valori che tra l’altro nella triade libertà, fraternità, uguaglianza sono stati ripresi dalla Rivoluzione francese del 1789. All’origine di tutto il nostro modo di vita c’è Gesù Cristo. Io non so, quando sarò davanti a Dio…

     

    Spero non così presto…

     

    Quando sarà, sarà. Resterò serena, sono sempre pronta.

     

    Ma Gesù per te è Figlio di Dio?

     

    Spero di scoprirlo come Figlio di Dio. Per ora nella mia vita lo considero un uomo e in quanto tale penso a quanto sia stato alto il suo sacrificio. Era certamente un uomo speciale, ha lasciato un messaggio fondamentale, epocale. Chissà… se non era Figlio di Dio, era comunque figlio di Dio come tutti noi. Vale veramente la pena di conoscerlo e di festeggiarne la nascita…

     

    Quand’eri bambina non ti incuriosiva il fatto di frequentare sia il Tempio che la chiesa?

     

    Al Tempio andavamo quando si festeggiava il Kippur, con nonno Angelo, per avere la sua benedizione per tutta la famiglia. Ma non capivo molto. Ancora oggi non posso dire di avere approfondito molto nè l’ebraismo nè il cattolicesimo. Posso dire però di aver imparato dai miei genitori, che ambedue credono fermamente in Dio – ognuno a suo modo – a rispettare l’altro. Sono felice di essere quella che sono. Ripeto che non sono ancora in grado di capire chi è veramente Gesù: alcuni hanno avuto questo dono di comprenderlo subito, io no… però ho tutta una vita davanti. Importante per me è che tu abbia dei punti di riferimento solidi, cui ancorarti quando è necessario, che ti inducano a comportarti bene nei confronti di te stesso e degli altri. C’è una morale, c’è una legge, c’è il rispetto della vita, della natura umana. Ad esempio mi sento vincolata alle Tavole della Legge da una parte, dall’altra mi attira molto la solidità della figura di padre Pio, che mi ha proposto mia nonna paterna.

     

    In casa festeggiate allora ricorrenze cattoliche ed ebraiche…

     

    Se sono a Roma digiuno anch’io per il Kippur: è un momento importante che ti obbliga a pensare a te stessa, a ripercorrere quanto hai fatto durante l’anno, sui semi che hai seminato. Certo festeggiamo il Natale: bisogna dargli una valenza più spirituale… non dovrebbe essere una festa consumistica con una corsa sfrenata ai regali e al superfluo. Mi piace l’idea che quella notte ci si ritrovi in famiglia perché è nato un Bambino straordinario. A Pasqua ecco il pane azzimo, che tra l’altro è buono. Festeggiamo anche il Capodanno ebraico, con il miele per l’anno nuovo; poi ci sono gli auguri del 31 dicembre.

     

    A proposito, ti chiami Cristiana: come mai?

     

    Mio papà, cattolico, voleva Sara; mia mamma, ebrea, invece promuoveva  Cristiana, che le piaceva.

     

    Un fatto curioso…

     

    Curiosissimo. Ti dico che poi finiscono per chiamarmi Titta!

     

    Ancora qualche domanda. Che cosa è importante per te quando persegui o ti offrono una parte in un film?

     

    Sia per cinema che televisione vorrei fare delle cose di qualità ovunque. Per quanto riguarda la televisione, essa ha un bacino d’utenza maggiore; ed è lì che da servizio pubblico ha il compito di divulgare cultura tramite produzioni belle ed educative. Il cinema… lì c‘è la magia della tela bianca sulla quale vengono proiettate delle immagini nel buio della sala… il fatto che tu sei avvolta dal film: come spettatrice mi piace molto andare al cinema, come attrice è bello sapere che si va a vedere un film in cui ci sei tu. I copioni che apprezzo sono quelli che possono arricchire nel contempo il mio percorso di vita e la mia qualifica professionale.

     

    Ci sono opere cinematografiche e letterarie che ti hanno particolarmente segnato?

     

    Un film bellissimo è Le Quattro giornate di Napoli di Nanni Loy; racconta la rivincita di un popolo che non ha nulla, è armato di volontà e riesce però a cacciare gli occupanti. E’ un affresco stupendo della napoletanità. Roma città aperta, Ladri di biciclette, Giona che visse nella balena, storia vera di Roberto Faenza sull’Olocausto. Poi, tra i libri, La lunga vita di Marianna Ucrìa, l’incontro con i Promessi Sposi, il filo che lega Shakespeare – che mi piace molto - ai Promessi Sposi nei modi di congedarsi dal pubblico…

     

    Ti piacerebbe interpretare Lucia? O magari Giulietta o santa Giovanna d’Arco?

     

    Lucia è stata una vittima dei suoi tempi: non mi affascina particolarmente, certo meno della ‘mia’ Teresa dei Viceré. Nei “Viceré” trovo più interessante, geniale, il personaggio di don Abbondio (e nel dirlo mi viene alla mente l’interpretazione magnifica di Alberto Sordi). Giulietta è l’eroina di una straordinaria storia d’amore, della più bella. Ma Giovanna d’Arco…. è stata intensa, energica, motore di una presa di coscienza, della riscossa del popolo francese alla ricerca di una nuova dignità…   

     

     

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