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    IL RABBINO CAPO DI SEGNI E IL RECENTE DOCUMENTO SUL DIALOGO

    IL RABBINO CAPO DI SEGNI E IL RECENTE DOCUMENTO SUL DIALOGO – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 10 marzo 2016

     

    Sull’ultimo numero del mensile “Pagine ebraiche” il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni analizza nei dettagli il documento sul dialogo con gli ebrei, presentato il 10 dicembre dalla competente Commissione vaticana - Intanto si avvicina il 29 marzo, cinquecentesimo anniversario dell’istituzione del primo ghetto ebraico nella Penisola, quello di Venezia: mercoledì 9 marzo una conferenza-stampa sull’argomento a Roma, presso la Stampa estera.

     

    “Dialogo: avanti con prudenza” è il titolo delle pagine 4 e 5 del numero di marzo del mensile “Pagine ebraiche”, che ospita un lungo e dettagliato intervento di Riccardo Di Segni sul documento riguardante i rapporti ebraico-cristiani presentato il 10 dicembre in Sala Stampa vaticana (vedi anche in questo stesso sito, rubrica ‘Vaticano’). Un titolo che lascia già presagire una certa cautela da parte del Rabbino Capo di Roma sul tema, del resto annunciato in prima pagina con l’assai significativo strillo: “Dialogo: le radici comuni, i problemi aperti”. Non solo: anche il corsivo in alto delle stesse pagine 4 e 5 incomincia con la seguente asserzione: “Il Dialogo va avanti, ma non può essere fatto solo di gesti simbolici”. Alle pagine 6 e 7 poi il mensile dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) si occupa con voci diverse e prevalentemente critiche di un altro documento recente di grande interesse, quello di 25 rabbini (cresciuti in seguito a 60, prevalentemente israeliani e statunitensi; 11 gli europei, ma nessun italiano) che, intendendo certificare pubblicamente i grandi progressi compiuti nell’ambito del dialogo dalla Chiesa cattolica, hanno rilevato che “il cristianesimo non è né un incidente né un errore, ma un frutto della volontà divina e un dono per le nazioni”. Come si noterà il dibattito sull’argomento all’interno del mondo ebraico è in corso e si presenta molto vivace.

    Torniamo però a Riccardo Di Segni, che inizialmente definisce “molto importante” il documento della Commissione vaticana “perché rappresenta il punto di arrivo di una lunga strada, ma anche il punto di partenza per gli sviluppi futuri”. Prima di entrare nei dettagli, il Rabbino Capo di Roma premette che il documento “è una riflessione interna al mondo cristiano” e dunque “l’osservatore esterno che la segue con attenzione è tenuto al rispetto e alla non interferenza”. Tuttavia, se “le decisioni che ne derivano hanno un impatto sull’altra parte”, diventa “inevitabile” il coinvolgimento con conseguente commento.

    Il Rabbino Capo di Roma espone quindi le sue considerazioni sui punti più importanti del documento vaticano. Di seguito ne riproponiamo alcune. 

    L’interpretazione del rapporto originale tra ebraismo e cristianesimo. Per Di Segni nel documento si presenta “in un certo senso il modello che qualcuno definisce a Y (…) Da una radice comune nascono l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo”. Osserva qui l’autore: “Per la cristianità è certamente un progresso rispetto al modello classico in cui l’ebraismo successivo a Gesù non ha più dignità. Ora si manifesta un rispetto sostanziale per l’ebraismo ‘rabbinico’ ”. Tuttavia “il quadro interpretativo generale (…) non è di parità, ma si è visto tutto sotto l’ottica dell’evento salvifico cristiano”. Ciò “ridimensiona l’impressione di tolleranza e parità che si potrebbe avere a prima vista”.

    La teoria della sostituzione e il ‘nuovo’ popolo di Dio. Di Segni osserva qui che “la teoria classica dichiarava che il popolo ebraico aveva ormai esaurito la sua funzione ed era stato sostituito dalla Chiesa, che si definiva Verus Israel”. Oggi però “gli sviluppi dottrinali recenti vanno in una direzione differente (…) Sembrerebbe di capire (…) che Israele, nel senso di popolo ebraico, è e rimane popolo di Dio”. Insomma: “La Chiesa rappresenta il compimento delle promesse fatte ad Israele, ma se Israele non è arrivato al compimento non perde la qualifica di popolo di Dio”.

    L’olivo selvatico. Rileva Di Segni: “Il documento si ricollega all’immagine di Paolo dell’innesto dell’olivo selvatico (‘oleastro’) nell’olivo originale per spiegare il rapporto tra Israele e la Chiesa”. Nel documento vaticano si legge: “Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio (…) Dall’altro lato questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele e i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice”. Osserva a tale proposito il Rabbino Capo di Roma: “Quello che però non viene detto in questo commento è che nell’immagine di Paolo l’innesto dell’oleastro non è un’aggiunta, ma una sostituzione, perché i rami dell’Israele originario vengono recisi dalla pianta ‘e se non persevereranno nell’infedeltà saranno anch’essi innestati’. Quindi solo se accetteranno la nuova fede saranno ricollegati alla pianta originale”. Perciò “l’esegesi proposta nel documento vaticano seleziona in positivo solo una parte dell’immagine”.

    La salvezza degli ebrei. Dalla lettura del documento vaticano Riccardo di Segni constata che “gli ebrei, anche se non credenti in Cristo, hanno parte della salvezza”. Però “come questo sia possibile rimane un mistero della fede” (si legge nel documento: “un mistero divino insondabile”). Continua il Rabbino Capo di Roma: “Rispetto a questo problema vi erano altre due possibilità: l’esclusione degli ebrei dalla salvezza, come era stato detto in passato, o l’ammissione della legittimità della via ebraica secondo la Toràh come via autonoma verso la salvezza. Nessuna di queste due soluzioni è stata accettata e la contraddizione derivante dalla soluzione adottata è stata ‘risolta’ sotto forma di mistero”. E’ una soluzione quest’ultima che presenta delle difficoltà, come è emerso - nota Di Segni - dalla risposta data dal cardinale Kurt Koch in un’intervista rilasciata a questo stesso sito (www.rossoporpora.org – rubrica ‘Intervista a cardinali’ – 23 gennaio 2016). Il porporato svizzero (che è anche presidente della Commissione vaticana) rilevava che: “Il problema teologico resta nel senso che non è facile conciliare l’irrevocabilità dell’alleanza del popolo ebraico con Dio e la nostra convinzione che con la venuta di Gesù Cristo si è verificato nella storia qualcosa di nuovo, di fondamentale, di cui è necessario tener conto”. Conclusione di Koch: “Non sono convinto che fin qui si sia trovata sull’argomento una soluzione soddisfacente per ambo le parti”. 

    La conversione degli ebrei. A tale proposito il documento vaticano – annota Di Segni – “è stato interpretato mediaticamente come la rinuncia della Chiesa alla evangelizzazione e alla conversione degli ebrei”. Però “in realtà non è proprio così: si rigetta la missione istituzionale, ma l’evangelizzazione rimane”. Dunque “per quanto ne consegue, come ebrei non possiamo certo chiedere che il cristiano che si rivolge a noi rinunci a proclamare la sua identità e la sua fede, ma se nell’approccio dialogico c’è un intento di evangelizzazione anche se non istituzionale, questo deve essere respinto”.

    La terra e lo Stato di Israele. Per il Rabbino Capo essi nel documento vaticano di impronta teologica “non vengono ignorati”, ma citati solo in relazione alla situazione dei cristiani in Israele: “Ciò discende da quanto detto nelle premesse del documento, in cui si nega un significato religioso dello Stato di Israele”.

    In conclusione. Il documento vaticano, evidenzia Riccardo Di Segni, “registra i notevoli progressi compiuti in questi cinquanta anni  sul ruolo di Israele nella percezione della Chiesa”. Tuttavia tali “significativi progressi sono comunque segnati da un’ombra di dubbio, data dalla visione totalizzante della salvezza cristiana e dalla necessità comunque di proclamarla ed evangelizzare”. Si può dunque pensare che “non risolvendo in modo logico e convincente le difficoltà dottrinali (come mai gli ebrei restano popolo di Dio e sono salvati anche se non credono), ma affidandole al piano misterioso della fede, l’intero impianto sia fragile e non abbia la forza di penetrazione presso il vasto pubblico”. Un timore, che il presidente dell’Ucei Renzo Gattegna ha presentato sotto la veste di un’aspirazione nella conferenza-stampa di mercoledì 9 marzo di cui diciamo qui sotto: “I progressi nel dialogo sono stati eccezionali. L’unica aspirazione che resta, molto importante, è che il nuovo atteggiamento della Chiesa – a partire da Giovanni XXIII – si rifletta nell’intero popolo dei fedeli”.

     

    A CINQUECENTO ANNI DALL’ISTITUZIONE A VENEZIA DEL PRIMO GHETTO EBRAICO IN ITALIA: COMMEMORAZIONE E MANIFESTAZIONI

     

    Il 29 marzo 1516 il Senato della Repubblica di Venezia decretò che “li giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo”. Sono passati cinquecento anni da quella decisione: l’anniversario non è certo da festeggiare, ma da commemorare sì, evidenziando soprattutto – pur tra le forti restrizioni connesse alla normativa riguardante il Ghetto - l’apporto positivo dato dalla comunità ebraica alla vita di Venezia negli ultimi cinque secoli. E’ stato questo il leit motiv della conferenza-stampa svoltasi mercoledì 9 marzo a Roma presso la Stampa estera, con la partecipazione tra gli altri del ‘governatore’ del Veneto Luca Zaia, del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, del presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna e del presidente della Comunità ebraica locale Paolo Gnignati. “Gli ebrei non hanno alcuna nostalgia del Ghetto”, ha subito evidenziato Gattegna, annotando che “non si può parlare di celebrazione, quanto piuttosto di commemorazione di un evento che, attraverso mille difficoltà, è riuscito a produrre anche effetti positivi”. Ciò anche perché il Ghetto di Venezia, il primo istituito in Italia, aveva aspetti particolari rispetto a quelli creati in seguito in varie città della Penisola, Roma in primis: “Era un quartiere piuttosto aperto” e i suoi abitanti - plurali per origine (tedesca, levantina, ponentina), per mentalità e per vocazione economica e di livello culturale assai alto - avevano la possibilità di praticare varie attività lavorative, come quella imprenditoriale apportatrice di ricchezza all’intera città. Dal Ghetto, solo però dall’alba al tramonto, si poteva uscire ad esempio per comprare libri e visitare amici; i non-ebrei da parte loro vi entravano per ascoltare lezioni e sermoni rabbinici. Nel Ghetto di Venezia, la cui popolazione raggiunse a un certo punto le cinquemila unità, si costruirono sinagoghe splendide, si stampò per primi il Talmud, si cementò un’identità ben viva. Tuttavia ciò non basta a far dimenticare che anche a Venezia gli ebrei erano considerati come stranieri senza diritto di cittadinanza, erano a rischio di cacciata e non avevano diritti: in cambio erano tassati in misura iniqua.   

    Prima del 1516 gli ebrei non potevano risiedere se non limitatamente nella città lagunare e dovevano restare sulla terraferma, un po’ per il timore da parte cattolica che essi potessero ‘contaminare’ i fedeli, un po’ per la paura dei patrizi di favorire rivali pericolosi per il mercato di Rialto. Ricordare oggi i cinquecento anni del Ghetto è particolarmente importante, considerate – ha detto Luca Zaia – “le nuove forme di antisemitismo e di negazionismo” diffuse anche attraverso internet, “un fatto inaccettabile”. Per Luigi Brugnaro la comunità ebraica veneziana “ha scritto e continua a scrivere la storia” della città lagunare.

    La cerimonia commemorativa inaugurale sarà il 29 marzo al Teatro La Fenice e comprenderà anche l’esecuzione  - da parte dell’Orchestra del Teatro diretta da Omer Meir Wellber - della Sinfonia n.1 in Re maggiore di Gustav Mahler. Tra gli altri avvenimenti previsti (oltre a una nutrita serie di Convegni internazionali) la mostra “Venezia, gli Ebrei e l’Europa 1516-1916” a Palazzo Ducale ( 19 giugno-13 novembre) e la rappresentazione del ‘Mercante di Venezia’ di Shakespeare nel Ghetto nuovo nell’ultima settimana di luglio. 

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