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    PIO LAGHI, IRAQ E GEORGE BUSH

    PIO LAGHI SU TERRASANTA, ARGENTINA-CILE E IRAQ (INCONTRO CON GEORGE BUSH) – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 3 settembre 2013

    Considerata l’attualità politica internazionale, riproponiamo alcune parti dell’intervista fatta l’11 marzo 2004 al cardinale Pio Laghi e apparsa ne “Il Consulente RE’ 3/2004, in cui il porporato rievoca il suo servizio diplomatico in Terrasanta, la ‘quasi-guerra’ tra Argentina e Cile e la ‘missione impossibile’ presso George Bush junior nel marzo 2003 per evitare la guerra contro l’Iraq.

     

    Nel ‘Consulente RE’ 1/2004 è parso interessante sentire il cardinale Renato Raffaele Martino sul tema sempre attuale della pace, in riferimento soprattutto a quanto è accaduto l’anno scorso in Iraq. Un altro protagonista vaticano di quei giorni è stato il cardinale Pio Laghi, inviato dal Papa in ‘missione impossibile’ da George Bush agli inizi di marzo. E’ sembrato utile rievocare con il porporato romagnolo tale missione e, in particolare, i contenuti del suo dialogo-confronto con il presidente. Nell’intervista, però, si parla ampiamente di altri grandi temi (…). Il primo è la questione della Terrasanta (con il ricordo degli anni da Delegato Apostolico tra il 1969 e il 1974 e della ‘missione’ del 2001 da Sharon e Arafat). Il secondo la ‘quasi-guerra’ tra Argentina e Cile a causa di tre isolette all’imboccatura del canale di Beagle: accadeva alla fine del 1978 e sarebbe potuto degenerare in un conflitto continentale se Giovanni Paolo II, appena eletto, non fosse intervenuto in extremis.

    (…) Eminenza, come fu che entrò in Segreteria di Stato?

    Fu su chiamata. Avevo avuto il privilegio di usufruire di una borsa di studio che mi permise di completare gli studi in teologia e in diritto canonico a Roma, presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore e presso l’Apollinare. Conseguite le lauree, stavo per tornarmene in diocesi dal mio vescovo, quando a quest’ultimo pervenne una richiesta per me dell’allora monsignor Giovanni Battista Montini. Il vescovo fece un po’ di resistenza, poi cedette, dato che a quel tempo il numero di sacerdoti diocesani copriva abbondantemente i bisogni. Fui quindi ‘ceduto’ alla Segreteria di Stato: dal 1950 al 1952 frequentai la Pontificia Accademia Ecclesiastica insieme anche agli odierni cardinali Antonetti e Cheli. Poi nel 1952 fui inviato a Managua…

    Managua, Washington, Delhi; dal 1964 al 1969 in Segreteria di Stato per la sezione ’Rapporti con gli Stati’, poi ‘Gerusalemme e Palestina’… Soffermiamoci sulla Terrasanta, tanto cara al cuore di ogni cristiano, ma anche così sofferente…

    Le vorrei leggere qualche passo della bolla con cui papa Paolo VI mi inviò in ‘Gerusalemme e Palestina’, con due passaporti, uno per Israele, l’altro per i Paesi Arabi. Il mio ufficio era sul monte degli Ulivi, ma la mia competenza diplomatica si estendeva alla Giordania, ai Territori occupati, a Cipro. E su quest’ultima isola instaurammo rapporti diplomatici con il presidente greco-cipriota arcivescovo Makarios. Fui anche nominato Visitatore apostolico in Grecia: l’ultimo era stato Angelo Giuseppe Roncalli diversi decenni prima.

    Mi diceva della bolla di nomina…

    Termina così: Da ultimo, diletto figlio, ti rivolgiamo ogni miglior augurio né possiamo trattenerCi dall’esortarti a somma virtù, anche se per te, che già ad essa tendi con alacrità, l’esortazione potesse sembrare un po’  superflua. Ma devi correre di più sulla strada della virtù, perché non è una terra qualsiasi quella a cui sei diretto, ma la più santa, la Terrasanta. Non è ad un popolo qualunque che tu sei mandato, ma al popolo eletto che con Dio intrattenne stretti rapporti quasi di parentela. Raggiungerai non una città comune, ma quella che vide Cristo pellegrino ed ospite e sul cui futuro egli un giorno pianse. E’ molto bello questo documento del 24 maggio 1969. Il Papa lo completò con una letterina autografa, scritta con la sua bellissima grafia lineare, in cui mi dava una benedizione particolare. Questi due documenti mi confortarono molto.

    Nel periodo di Gerusalemme Lei fu ideatore e animatore di un progetto per un’Università a Betlemme. Per quali motivi? Si deve anche ricordare che la preoccupazione educativa è sempre stata, per Lei educato anche dai salesiani, tra le Sue priorità: non a caso nel 1990 fu scelto per presiedere la Congregazione per l’educazione cattolica… Ma quali furono i motivi anche locali che La spinsero agli inizi degli Anni Settanta a impegnarsi per l’Università di Betlemme? 

    Quando Paolo VI mi inviò a Gerusalemme mi disse tra l’altro: “Veda di fare il possibile per limitare l’esodo dei cristiani dalla Terrasanta”…

     

    L’UNIVERSITA’ DI BETLEMME

    Il problema è attualissimo e drammatico oggi, fors’anche più di ieri…

    Era già grave negli Anni Settanta… Siamo confrontati con un dato di fatto: il 95% dei cattolici in Terrasanta è palestinese. E i palestinesi soffrono tanto da essere molto tentati di lasciare la loro terra. Negli Anni Settanta erano molti i giovani che uscivano dalle scuole medie cristiane: per frequentare l’Università dovevano però emigrare nei  Paesi arabi o in Occidente. Facile per loro restare coinvolti nella ‘questione palestinese’: conseguentemente diventava difficile poter rientrare in patria. Una terra senza giovani non ha futuro; appariva dunque necessario fondare un’Università per i palestinesi.

    Il luogo prescelto fu Betlemme…

    Trovammo lì un edificio dei Fratelli delle Scuole cristiane, nel cuore della città. Furono tre Frères i primi insegnanti, eroici; insieme con loro alcuni professori sia cristiani che musulmani. Siamo nel 1973, ben prima che venisse riconosciuta l’autorità palestinese sulla città; la scelta della Chiesa fu dunque in un certo senso profetica. Il nome fu Bethleem University, senza l’aggettivo ‘cattolico’ ma con il nome certo significativo di Betlemme.

    Oggi è ancora aperta?

    Sì. Gli allievi sono quasi tremila, quasi due terzi dei quali musulmani. Noi proponiamo a tutti loro i valori importanti della vita e l’attaccamento profondo a una terra che è santa.

    Risale al Suo periodo anche la questione del Notre Dame de France, il grande centro fondato dagli assunzionisti di fronte alla Porta Nuova, oggi Notre Dame of Jerusalem

    Il centro dei padri agostiniani assunzionisti, che batteva bandiera francese, era in cattive acque; i proprietari si trovarono de facto costretti a venderlo. Il centro passò così al Fondo nazionale ebraico. Papa Paolo VI mi diede istruzioni nel senso del recupero. Dopo un ricorso al Tribunale israeliano, finalmente il primo ministro Golda Meir decise di restituirlo, ma alla Santa Sede: mi chiamò per comunicarmi la notizia. Oggi questo grande centro si chiama Notre Dame of Jerusalem,  poiché Nostra Signora è più di casa a Gerusalemme che altrove…

    Se n’è parlato anche sul ‘Consulente RE’ 10/2003 con l’odierno responsabile don Aldo Tolotto. Eminenza, quale significato dare alla volontà mostrata dalla Santa Sede di recuperare il centro?

    Se noi avessimo lasciato il Notre Dame in mano al Fondo nazionale ebraico, lì si sarebbe creato un centro per gli studenti dell’Università ebraica e il suo carattere religioso sarebbe andato perduto. Il segnale per i nostri cristiani sarebbe stato devastante: la Chiesa sta facendo le valigie, ormai resta poco da fare. 

    Sia Paolo VI che Giovanni Paolo II hanno insistito spesso sulla necessità per i cristiani di restare in Terrasanta, per evitare che i Luoghi santi divengano musei…

    Lì, attorno ai Luoghi santi, noi troviamo ancora oggi l’intera vita della Chiesa: sacramentale, educativa, assistenziale. Come pensare di abbandonare tutto?

     

    L’INCONTRO CON SHARON E ARAFAT

    Eminenza, Lei nel 2001, qualche tempo dopo lo scoppio della Seconda Intifada, è stato inviato da Giovanni Paolo II in Terrasanta come latore di un messaggio per Ariel Sharon e per Yasser Arafat.  Quali i motivi di quella missione?

    Il Papa chiedeva con grande forza ai due leader di operare perché si ponesse termine alla “tragica spirale di violenza”. Sharon e Arafat mi accolsero a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Non c’era ancora il muro che avrebbe ostacolato il mio incontro con Arafat. Consegnando il messaggio a Sharon feci diverse considerazioni sulla questione della sicurezza di Israele. Dissi di comprendere che Israele aveva bisogno di sicurezza e manifestai la solidarietà del Santo Padre e mia per le vittime degli attentati; nel contempo però evidenziai che il perseguire come massimo criterio per Israele la massima sicurezza era una scelta che avrebbe radicalizzato ulteriormente il problema spingendolo in un vicolo cieco. Portai con forza il discorso anche sulla politica degli insediamenti ebraici nei Territori, rilevando che alcuni insediamenti costituivano una forma di violazione dei diritti umani, impedendo de facto una minima unità territoriale palestinese e ostacolando così gravemente il raggiungimento di un’equa soluzione del conflitto. Ariel Sharon non fu molto contento delle mie parole, pur sentendosi molto onorato per il messaggio papale: tra l’altro, con gesto squisito, mi aveva ricevuto poche ore dopo il mio arrivo.

    E come andò con Arafat?

    Mi ricevette a Ramallah la mattina dopo. Lo trovai stanco… mi fece l’impressione di un uomo malato… mi sembrò che avesse una grandissima fiducia nelle parole e nei gesti del Papa. Prese subito in mano il messaggio, lo lesse, si commosse. Mi disse di riferire al Santo Padre di questa sua fiducia, espressa anche in nome del popolo palestinese.

    Ci si chiede spesso se quanto Arafat dice corrisponda a quanto pensa effettivamente…

    Certamente Arafat gioca le sue carte e le sa anche giocare. Però in quel momento a Ramallah, in quella sorta di ridotto, circondato da tanti consiglieri che si muovevano avanti e indietro, mi sembrò un uomo alla ricerca disperata di appoggi. In questo senso mi lasciò l’impressione di essere sincero quando parlava del Papa.

    Da quanto ha detto prima par di capire che secondo Lei la situazione è molto peggiorata rispetto al 2001…

    Direi proprio di sì. Oggi c’è il muro divisorio, che per i palestinesi e per molti altri non è solo una barriera, ma una forma di preannuncio tragico, quasi per far capire che in futuro sarà ben difficile una coesistenza, men che meno una collaborazione. Invece il destino ha unito i due popoli – distinti per cultura e religione - su uno stesso territorio. Personalmente avrei preferito l’installazione di un cordone umano di forze internazionali per una separazione a tempo dei due popoli, come è stato fatto con successo per Cipro. Il Papa l’ha detto più volte molto chiaramente: non muri, ma ponti! Sono sempre d’accordo con il Santo Padre, ma questa volta, se possibile, ancora di più!

    Eminenza, come aiutare concretamente la Terrasanta, al di là delle iniziative diplomatiche?

    I cristiani hanno una grande responsabilità verso i nostri cristiani laggiù e anche verso tutti coloro, musulmani ed ebrei, che abitano in quella regione. Essi hanno bisogno non solo della nostra comprensione e delle nostre preghiere, ma anche del nostro pellegrinaggio: bisogna andare in Terrasanta, dove i pericoli non sono poi così grandi come si vuol far credere. Se ci si sa muovere, anzi, direi che si può andare tranquilli. Inoltre dobbiamo riuscire a smuovere l’intera opinione pubblica, i governi d’Europa. Ma una chiave di volta per la soluzione del conflitto l’ha in mano il governo degli Stati Uniti.

     

    LA ‘QUASI-GUERRA’ TRA ARGENTINA E CILE

    … il governo degli Stati Uniti…Ne approfittiamo per passare alla parte ‘americana’ dell’intervista. Eminenza, da giovane diplomatico ha lavorato a Managua e a Washington, in età più matura è stato nunzio a Buenos Aires – dal 1974 al 1980, successivamente a Washington nel decennio successivo dapprima come Delegato apostolico, poi – alla ‘normalizzazione’ dei rapporti diplomatici – come pro-nunzio apostolico. Le Americhe le conosce… Nel 1978, quand’era a Buenos Aires, l’Argentina della dittatura militare e il Cile di Pinochet si trovarono sull’orlo della guerra a causa di tre isolette all’imboccatura del canale di Beagle (sull’Atlantico), assegnate dal Tribunale dell’Aja al Cile. Ma la guerra fu evitata all’ultimo momento…

    Sarebbe stata una guerra devastante. Credo sia stata evitata per poche ore, per la lungimiranza di Giovanni Paolo II appena eletto al Soglio di Pietro. Io ero nunzio apostolico a Buenos Aires e a Santiago c’era il confratello Angelo Sodano; ambedue avevamo fatto presente a Roma la gravità della situazione e l’urgenza di un intervento. Il ministro degli esteri cileno era venuto a Buenos Aires il 10-13 dicembre con l’intenzione di redigere una lettera con una richiesta comune di mediazione a Giovanni Paolo II, dopo che un incontro al vertice tra Videla e Pinochet , sulla frontiera argentino-cilena, aveva avuto esito negativo. Ma la lettera rimase incompiuta, perché i due governi militari non si misero d’accordo nel definire l’oggetto della mediazione. Le forze armate dei due Paesi erano ormai già schierate, pronte per l’attacco. Informato, Giovanni Paolo II intervenne allora il 22 dicembre chiedendo di fermarsi e inviando il suo collaboratore cardinale Antonio Samoré per offrire i buoni uffici nella stesura della lettera. Samoré fece la spola continuamente tra Buenos Aires e Santiago del Cile: fu un lavoro delicatissimo che però si concluse positivamente, perché l’8 gennaio a Montevideo i due governi firmarono finalmente la lettera che richiedeva la mediazione pontificia. Il cardinale tuttavia subordinò il suo ritorno a Roma con la lettera al ritiro immediato degli eserciti dalle frontiere. Fu un momento difficilissimo, ma i due governi militari cedettero.

    Come si concluse la vicenda?

    Incominciarono gli incontri in Vaticano, dapprima coordinati con molta pazienza dal cardinale Samoré, che però morì prima della conclusione dei negoziati e fu sostituito dall’odierno nunzio apostolico negli Stati Uniti Gabriel Montalvo. Nell’accordo si riconosceva all’Argentina il principio del dominio su quella parte dell’Oceano Atlantico ad esclusione delle tre isolette. Il popolo argentino, con Alfonsin, approvò l’accordo; il governo cileno anche. Seguì la firma del Trattato di pace.

    Si può ben dire che l’intervento di Giovanni Paolo II fu decisivo…

    Non c’è dubbio. Lui stesso, quando lo incontrai nel febbraio 1979 a Puebla e poi a maggio a Roma, mi disse: “Lei può immaginare che, appena eletto, io sarei rimasto spettatore di fronte allo scoppio di un incendio tra due Paesi cattolici, che avrebbe avuto conseguenze molto sinistre non solo per i popoli, ma anche per la Chiesa?” Del resto il generale argentino Viola mi aveva detto che, se la guerra fosse scoppiata, si sarebbe subito estesa, perché il Perù avrebbe cercato di occupare territori cileni, la Bolivia avrebbe cercato con la forza l’accesso al mare… Lei vede che forse sarebbe stato coinvolto un intero continente!  

          

    IL CONFRONTO CON GEORGES BUSH

    Eminenza, torniamo agli Stati Uniti. Lei è conosciuto per essere amico della famiglia Bush; non casualmente poco più di un anno fa Lei è stato inviato in ‘missione impossibile’ presso l’attuale presidente, latore di un messaggio papale

    per scongiurare la guerra contro l’Iraq. Lei fu accolto e trattato come sperava o come temeva?

    Come temevo, nonostante l’amicizia che avevo col papà del Presidente… con lui molto meno, un po’ di più con la sua famiglia. Mi ricordo di aver condotto le due figlie - venute a Roma accompagnate dalla nonna Barbara - nei Musei vaticani, nei Giardini, nella Basilica di san Pietro. Però con l’attuale Presidente non avevo nessuna familiarità. Quindi temevo un’accoglienza non calorosa, anche perché informato dell’esperienza avuta dai quattro miei confratelli cardinali statunitensi ricevuti due giorni prima da Condoleeza Rice: ormai il dado era tratto. Penso che l’interesse del governo degli Stati Uniti fosse non tanto quello di ascoltarmi, ma di comunicarmi il suo messaggio sulla necessità della ‘guerra preventiva’, conseguenza della teoria dei “pericoli incombenti”. Negli Stati Uniti si vive dal 2001 in una sorta di incubo, un trauma dopo quanto è avvenuto l’11 settembre.

    Come si è sviluppato il dialogo con il presidente Bush?

    Prima mi sono incontrato con Condoleeza Rice, poi con il Presidente. Gli ho detto subito che, invece di ricorrere alle armi, gli Stati Uniti avrebbero dovuto magari puntare sulla forza sì, ma come deterrente, spingendo Saddam ad ‘aprirsi’ di più agli ispettori. Poi: le “armi micidiali” di Saddam dov’erano? Ma George Bush rilevò che era indispensabile estirpare con la forza delle armi il ‘male incurabile’ ovvero Saddam Hussein con il suo regime, prima che entrasse in metastasi. Io ribattei che il ‘male incurabile’ era nel conflitto israelo-palestinese: è lì che si doveva agire prima di tutto. Il Presidente osservò che il problema sarebbe stato affrontato in seguito. Ma io gli feci presente che era già troppo tardi.

    Più che un dialogo è stato un confronto…

    Sì, franco. Io non ero d’accordo con lui né per la diagnosi né per la terapia proposta né sulle conseguenze. Ho detto al Presidente che la Chiesa cerca di stabilire per quanto possibile  dei ponti con l’Islam. Com’era allora possibile che gli Stati Uniti e l’Inghilterra, considerati Paesi cristiani, portassero invece la guerra a un Paese musulmano nel contesto di un mondo arabo già di per se stesso difficilissimo da comprendere? Invece di costruire ponti, evidenziai al Presidente, voi li distruggete. Ancora chiesi se avevano pensato alle vittime, ai disastri incalcolabili conseguenti all’uso delle armi, ai tempi lunghi della ricostruzione. Conclusi avvertendo il Presidente che il governo degli Stati Uniti stava per concretizzare atti illegali, perché al di fuori del quadro delle Nazioni Unite e tali da non poter essere giustificati.

    Eminenza, Lei ritiene sempre che quella assunta l’anno scorso fosse una posizione giusta?   

    La posizione naturalmente non era solo mia, ma di tanti, a incominciare dal Santo Padre. Era una posizione giusta. Oggi si tratta per l’Iraq di arrivare il più presto e il meglio possibile a una ricostruzione coinvolgendo il maggior numero di Paesi. Le forze degli Stati oggi operanti in Iraq non dovrebbero dare nemmeno l’impressione di essere de facto agli ordini di una bandiera, fosse pure quella degli Stati Uniti. Quella bandiera, per giungere a un ristabilimento minimo dell’ordine nel Paese, dev’essere di tanti colori, il maggior numero possibile. Oggi l’impressione invece è che le forze di altri Paesi siano in Iraq collaterali a quelle statunitensi, quelle che hanno voluto e operato l’intervento militare. Dico questo da amico degli Stati Uniti, dove ho trascorso ben diciassette anni del mio servizio alla Santa Sede. Il Papa ama il popolo americano: lo evidenziai più volte durante la mia ‘missione’ a Washington. Ma gli Stati Uniti devono capire che non possono avvalersi dell’Onu quando fa loro comodo e lasciarlo quando a loro non conviene. Non per nulla il Papa nel suo recente Messaggio del primo gennaio per la Giornata della Pace ha insistito sul sostegno da dare alle Nazioni Unite e sul ruolo che esse sono chiamate ad assumere per risolvere conflitti internazionali.  

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