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    SINODO/PARLA LO SVIZZERO JEAN-MARIE LOVEY, VESCOVO DI SION

     

    SINODO/PARLA LO SVIZZERO JEAN-MARIE LOVEY, VESCOVO DI SION – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 24 ottobre 2015

     

    Intervista al rappresentante sinodale della Conferenza episcopale svizzera, il vescovo di Sion Jean-Marie Lovey – L’esperienza arricchente dell’universalità della Chiesa – Si è lavorato intensamente, seriamente e con passione - Una nota nuova evidenziata dall’importanza data all’accompagnamento di persone e famiglie in difficoltà – Troppo pessimista lo spirito che animava l’ Instrumentum laboris: la Buona Novella esiste e va comunicata alle famiglie e al mondo.

     

     

    Ci sono due svizzeri al Sinodo 2015. Il primo è un curiale, il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani. L’altro è monsignor Jean-Marie Lovey, vescovo di Sion e rappresentante al Sinodo della Conferenza episcopale elvetica. Nato nel 1950 a Orsières (nella parte francofona del canton Vallese), il prelato sessantacinquenne è stato preposito della Congregazione dei canonici del Gran San Bernardo (e dunque ha vissuto per anni a 2500 metri sul livello del mare, immerso nella vita di montagna) e guida da poco più di un anno la diocesi di Sion, in cui ha fatto ingresso il 28 settembre 2014 con una massiccia presenza di popolo. Lo incontriamo ieri, appena uscito dall’aula sinodale e - attraversata piazza san Pietro e oltrepassata porta sant’Anna – ci sediamo a un tavolo ospitale nel Quartiere della Guardia svizzera pontificia…

    Monsignor Lovey, è appena finita la mattinata sinodale, caratterizzata da una cinquantina di interventi in aula sulla bozza di documento finale, che i padri hanno ricevuto solo qualche ora fa, giovedì sera. A questo punto siamo vicini al traguardo. E dunque forse Lei può già abbozzare una risposta alla nostra domanda: per quanto riguarda le grandi attese proclamate da qualche cardinale, molti media e parti non irrilevanti di fedeli anche svizzeri, secondo Lei il documento finale tenderà a soddisfarle, cioè presenterà delle inedite e serie ‘aperture’?

    Credo di dover premettere una considerazione. Al momento in cui rilascio questa intervista non si sa ancora esattamente che cosa ne sarà del documento finale che sarà votato domani punto per punto: sarà reso pubblico subito…

     …come sembra, secondo le ultime informazioni…

    .. o invece il Papa, cui è indirizzato, se lo terrà e lo considererà, con l’autorità e la libertà che gli sono proprie, come un elemento fondamentale per un nuovo documento magisteriale, esortazione apostolica o enciclica, il che è stato fatto spesso nella storia dei Sinodi?

    Una cosa non esclude l’altra… Vedremo che cosa succederà sabato. In ogni caso Lei pensa che il documento possa contenere novità di rilievo nell’ambito della pastorale della famiglia?

    Qui occorre essere un po’ prudenti. Ci sono tante attese, alcune orientate molto unilateralmente verso i medesimi temi, come era emerso già dalle consultazioni presinodali in Svizzera e in tutto l’Occidente. Mi riferisco ai temi dell’ammissione all’Eucarestia dei divorziati risposati e dell’ accoglienza (con eventuale benedizione) delle unioni tra persone dello stesso sesso. Il Sinodo, sia a livello di discussione nei gruppi linguistici (Circuli minores) che in aula, ha evocato molto spesso il ruolo e la funzione dei pastori, cui è demandato di accompagnare le persone, tutte. Questo mi sembra forse un po’ nuovo…

     … però già molti pastori lo fanno da tempo…

    Sì, ma è nuova soprattutto la messa in evidenza, la sottolineatura di una preoccupazione pastorale comune per l’accompagnamento. Sui divorziati risposati gli interventi nel Sinodo sono stati tanti, anche se non è stata data una risposta precisa alla richiesta di accesso all’Eucarestia. Per il momento si sta ancora studiando la questione e la Commissione di redazione del documento finale in queste ore è al lavoro per tentare una sintesi accettabile da tutti.

    Monsignor Lovey, Lei è vescovo solo dal 2014, pastore della diocesi vallesana di Sion. Questo è il Suo primo Sinodo. Quali erano le Sue attese? Che cosa L’ha impressionata?

    Per quanto riguarda le attese, devo dire che in me era fermentato qualcosa di preoccupante, quasi di angosciante, anche per il quadro sinodale di scontro rude e continuo prefigurato da molti massmedia. Un’esagerazione. Ho constatato che il Sinodo ha lavorato su tre livelli: nell’aula sinodale cioè nel plenum, molto nei gruppi linguistici, anche a livello personale… insomma una quantità impressionante di lavoro, ciò che è un indizio rivelatore della serietà e della passione con cui noi abbiamo affrontato queste tre settimane a Roma.

    Altri aspetti che L’hanno colpita?

    Il clima veramente fraterno in cui si è sviluppato il dibattito nel mio gruppo, quella di lingua francese…

    … Lei faceva parte di un gruppo molto composito, ma anche molto equilibrato, così come si evince dalla lettura delle relazioni presentate sulle tre parti del documento di lavoro, l’Instrumentum laboris… 

    Abbiamo saputo ascoltare esperienze diverse e vissute in tutto il mondo, dal Canada, dall’Iran, dalla Siria, da Belgio, Francia e Svizzera, da sette Paesi africani…Le abbiamo ascoltate e hanno così arricchito la nostra esperienza di cattolicità.

    Nella conferenza-stampa di inizio Sinodo Lei ha ricordato più volte le paure pre-sinodali di numerosi cattolici svizzeri, espresse anche con lettere e e-mail; paure legate soprattutto al timore di uno sbandamento dottrinale del Sinodo… Non siamo ancora giunti al voto finale, ma Lei può dirci già se quelle paure erano fondate?

    Iuxta modum, non del tutto. Le tensioni non erano così forti come si prefigurava. Le paure certo esistevano, di chi temeva che la Chiesa abbandonasse la dottrina e anche di chi, al contrario, temeva si arroccasse su posizioni di rigidità assoluta. Devo dire che un cammino è stato fatto in queste tre settimane. Giorno dopo giorno si è acquisito qualcosa di nuovo e di arricchente, grazie all’ascolto costante.

    All’ Instrumentum laboris da diversi padri sinodali è stato rimproverato di aver dipinto a tinte troppo fosche l’odierna realtà della famiglia… anche dal gruppo di cui Lei faceva parte…

    In effetti nell’ Instrumentum laboris  si sono evidenziati soprattutto le difficoltà e i problemi delle famiglie. E’ uno sguardo che ci è sembrato troppo pessimista, improntato al pessimismo più nero. Penso che nel documento finale del Sinodo invece emergerà il tema della speranza, con largo spazio anche alle famiglie che hanno trovato l’equilibrio, che vivono secondo il Vangelo anche se è dura, che vivono contente… è giusto che pure loro si attendano più di una parola di riconoscenza e di incoraggiamento!  

    C’è stato dunque un cambio di prospettiva nell’approccio ai problemi della famiglia…

    Sì. Francamente si aveva l’impressione che l’ Instrumentum laboris fosse un po’ catastrofista nello spirito che lo animava; noi invece nel Sinodo abbiamo voluto che si rendesse conto pubblicamente che la Buona Novella esiste e va comunicata alle persone, al mondo.

    Monsignor Lovey, può illustrare alcuni tra i molti emendamenti all’Instrumentum laboris, inoltrati dal vostro gruppo alla Commissione di redazione del documento finale? Lei sa che in totale i 13 gruppi linguistici hanno inoltrato non meno di 1354 emendamenti, un vero record… e se  ne sono aggiunti diversi altri durante il dibattito di venerdì mattina sulla bozza del documento finale… 

    Sì, di emendamenti se ne sono presentati veramente una moltitudine, ciò che non rende certo agevole il lavoro della Commissione di redazione, che penso abbia lavorato anche di notte per giungere a una prima bozza, data la costrizione dei tempi che prevedono che sabato si voti e si concluda. La commissione, bisogna dirlo, ha fatto un lavoro gigantesco. Se Lei mi chiede di fare qualche esempio di nostri emendamenti di gruppo, posso citarLe quello riguardante la doverosa insistenza sul matrimonio come vocazione…

    Che significa di preciso?

    Se un giovane e una giovane decidono di costruire un avvenire comune, rispondono a un appello che viene da lontano, dall’alto: è Dio che li ha scelti l’uno per l’altra, non si tratta di un semplice contratto umano. Il matrimonio come vocazione è parte della presenza di Dio nell’esperienza umana.

    Nei gruppi anglofoni si è parlato a tale proposito di “pedagogia divina”… 

    Sì, mi sembra significativa questa espressione, che è stata proposta anche per il documento finale.

    Altro esempio di emendamenti? 

    L’Instrumentum laboris parlava di diverse possibilità per uno snellimento delle procedure di nullità riguardanti la disciplina canonica del matrimonio. Ebbene, tutto ciò è stato reso obsoleto dalla pubblicazione del Motu proprio papale in materia dell’8 settembre; perciò quella parte era inutile mantenerla.

    Qualche esempio invece di argomenti molto discussi?

    Non direi che ci sia stato un argomento preminente, più discusso di altri. Largo spazio è stato dato all’influsso delle situazioni storiche, politiche, sociologiche sulla famiglia. Ad esempio i vescovi dell’Iraq, della Siria hanno illustrato come le famiglie mediorientali soffrano per i conflitti in corso, che le smembra. Si è chiesto che il Sinodo in quanto tale dica una parola chiara su quanto succede in quelle terre a danno dell’istituto familiare. Un altro argomento poco conosciuto da noi, ma tipico delle società musulmane, è quello dei matrimoni misti. Là le comunità cristiane sono molto minoritarie e nove matrimoni su dieci si fanno con un musulmano o con una musulmana. Il coniuge cristiano, in tal caso, secondo la legge musulmana deve convertirsi all’islam. E’ un problema grave per i pastori locali. Alle nostre latitudini è emerso come previsto il tema dei divorziati risposati, che è una grande e reale preoccupazione pastorale…

    Ma numericamente il problema dell’accesso alla Comunione dei divorziati risposati è così importante?

    Da noi i divorziati risposati sono una moltitudine. Certamente tra loro quelli che chiedono l’accesso alla Comunione sono numericamente ridotti. Però si deve tener conto del fatto che le preoccupazioni pastorali dei pastori sono per l’intera situazione sociale.

    Che cosa riporta, di ritorno da Roma, ai cattolici svizzeri?

    Direi prima di tutto l’esperienza dell’universalità della Chiesa. La Svizzera di per sé è un Paese straordinario per la varietà delle sue culture, cui si aggiungono quelle di chi sceglie di raggiungerla e di viverci. Politicamente si è un po’ isolati dalla costruzione europea ed ecclesialmente talvolta si ripiega troppo su se stessi, contrapponendo Chiesa svizzera e Chiesa universale. Mi piacerebbe che ci si aprisse di più all’universalità. Occorre essere ad esempio più attenti nella pastorale ai problemi familiari dei rifugiati.

    Lei ha accennato a una contrapposizione, che non raramente si riscontra, tra Chiesa svizzera e Chiesa universale…. Non mi vorrà dire che persiste in qualche modo il complesso antiromano di una parte dei cattolici svizzeri…Los von Rom…

    Penso che sia un qualcosa che esiste ancora. Ci sono dei riflessi antiromani che ancora resistono… alcuni sono fondati…

    Fondati?

    Credo che si sia spesso identificata la Chiesa universale con la Curia Romana… e Lei sa che cos’era la Curia Romana… E’ anche vero però che con i papi degli ultimi decenni la Curia è un po’ cambiata, non è più quella dei tempi di Lutero e nemmeno di cent’anni fa. Perciò anche noi svizzeri dobbiamo cambiare un po’ il nostro giudizio… Roma non è più quella Roma!

    P.S. L’intervista, oltre che su www.rossoporpora.org, appare in versione cartacea nell’inserto ‘Catholica’ del ‘Giornale del Popolo’, quotidiano cattolico della Svizzera italiana, di sabato 24 ottobre 2015.

      

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