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    ORA DI ISLAM A SCUOLA? REAZIONI CARDINALIZIE

    ROSSOPORPORA DI OTTOBRE 2009 SU "IL CONSULENTE RE ONLINE"

    Si esprimono in particolare sull'argomento i cardinali Poletto, Bagnasco, Tonini, Martino, Martini, Rodriguez Maradiaga, Mejia, Biffi.  Per il Sinodo sull’Africa le riflessioni  cardinali Turkson, Arinze, Agré, Sarr, Pengo, Wamala, Napier, Nije, Okogie.  

     

    Quello delle modalità dei rapporti con i musulmani in Europa è un tema che un po’ dappertutto suscita accese contrapposizioni tra tesi diverse. L’ultimo esempio riguarda l’idea lanciata a metà ottobre dal sottosegretario Adolfo Urso durante il Convegno delle Fondazioni Farefuturo (vicina a Gianfranco Fini) e Italianieuropei (vicina a Massimo D’Alema): il politico finiano ha proposto un’ora di religione islamica facoltativa nelle scuole pubbliche italiane. Tra le tante reazioni quelle provenienti dal mondo cattolico: in questa rubrica diamo conto di alcune tra le considerazioni espresse da porporati (in questo stesso numero di ottobre 2009  de Il Consulente RE si esprime sulla questione il cardinale Josè Saraiva Martins, mentre su moschee e minareti (in vista del voto popolare del 29 novembre) riflettono il vescovo di Lugano Pier Giacomo Grampa e il parlamentare ticinese Giorgio Salvadé). Torniamo al dibattito italiano.

    Ne la Repubblica del 18 ottobre, il cardinale Severino Poletto rileva che la proposta “non tiene conto della società italiana di oggi. Che ha una cultura e una tradizione in cui l’Islam è sostanzialmente estraneo o presente in modo non centrale”. Per il futuro, chissà… Però, intanto è evidente che “il cattolicesimo fa parte integrante delle nostre radici “ e dunque l’ora di religione cattolica “serve a completare il curriculum di studi. Per il settantaseienne arcivescovo di Torino “non siamo davvero preparati a un cambiamento di questo genere”. E “una modifica brusca rischia di creare contraccolpi che possono produrre l’effetto contrario a quello desiderato”. Il porporato di origine trevigiana è d’altra parte “assolutamente favorevole al fatto che si individuino luoghi di preghiera per i cittadini di fede musulmana come per quelli delle altre confessioni religiose”. Tuttavia è ben vero che “le città e i paesi italiani sono stati caratterizzati per secoli dalla presenza dei campanili”! Perciò, rileva ancora il cardinale Poletto, “credo sia giusto che il paesaggio non si modifichi radicalmente in pochi anni. Anche perché il sorgere dei minareti, oggi, non sarebbe lo specchio della società italiana”. Infine un appello al principio di reciprocità: “C’è da auspicare che il cambiamento si realizzi anche nei Paesi islamici.” Perché “provi a far costruire oggi un campanile di fianco a un minareto in Arabia Saudita: la libertà è fatta anche di reciprocità”.

    In un’ampia intervista al Corriere della Sera del 18 ottobre, il cardinale Angelo Bagnasco risponde così a una domanda sulla proposta in questione: “L’ora di religione cattolica, nelle scuole di Stato, si giustifica in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura. Pertanto la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. Non si configura, quindi, come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola”. Conclusione del presidente dei vescovi italiani: “Non mi pare che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e riconosciuta motivazione”.

    Anche il novantacinquenne ma sempre vigile cardinale Ersilio Tonini ha espresso la sua contrarietà all’agenzia Adn-Kronos. E’ pungente quando evidenzia di comprendere le buone intenzioni e però “dietro queste proposte c’è pressapochismo”. Perché “ci vuole la massima prudenza nell’approccio con l’Islam”. L’idea del segretario della Fondazione Farefuturo è “impraticabile, non attualizzabile nel nostro momento storico”. Del resto “pensare che l’Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore. Ha mille espressioni, collegamenti, imparenta menti”. Ed è un fatto che “con i valori della nostra civiltà non ha nulla a che vedere”.

    Una posizione assai diversa è quella del cardinale Renato Raffaele Martino, che del resto si era già pronunciato sull’argomento tre anni fa (“Non vedo perché non si possa insegnare la religione islamica. Questo è il rispetto dell’essere umano e il rispetto non deve essere selezionato”). In un’intervista a Il Giornale del 23 ottobre il quasi settantasettenne presidente (da sabato 24 ottobre emerito) del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha rilevato tra l’altro che “è importante che gli immigrati che giungono nel nostro Paese siano integrati”. E’ però giusto precisare che “coloro che conservano il loro credo, hanno pure il diritto a istruirsi nella loro religione”. Anche nella scuola pubblica, “in linea di principio”, perché “la libertà religiosa è sancita nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo” e “significa anche potersi istruire nella propria religione”. Certo esiste “il rischio paventato dal cardinale Bagnasco, quello di creare anche sul nostro territorio delle enclaves etniche, e bisogna far attenzione alle scuole confessionali con influenze radicali”. Proprio per questo la proposta del finiano Urso “potrebbe favorire, invece, la crescita di un Islam pienamente italiano”.

    Sempre sui rapporti con i musulmani interviene nella sua rubrica mensile (che appare nel Corriere della Sera) il cardinale Carlo Maria Martini. Sotto il titolo Perché l’Islam non deve farci paura scrive il porporato gesuita nella prima pagina del numero di domenica 25 ottobre: “Trovo scritto nel libro dei Proverbi: Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna. A queste quattro bisogna aggiungerne molte altre, che noi non comprendiamo. Non capiamo perché, ad esempio, riguardo agli islamici, e in genere agli immigrati extracomunitari, i governi europei non si preoccupino maggiormente di assicurare la loro integrazione e la loro vita pacifica. Per questo è chiaro che bisogna superare difficoltà e andare contro la mentalità di alcuni. Ma la meta è necessaria e, se non ci arriveremo, ci troveremo in grandissima difficoltà”. All’interno, a pagina 19, l’arcivescovo emerito di Milano, rispondendo a “non poche lettere” sull’argomento Islam, elenca cinque “considerazioni generali che inquadrano il problema”. La prima: “Decisiva per ciascuno” è la concretezza quotidiana della religione vissuta. Invece “i fondamentalisti partono da una religione non vissuta, ma pensata”.

    La seconda: “Conosco non poche persone di religione islamica che sono sinceri cercatori di Dio e che, venendo tra noi, non chiedono che di trovare un po’ di lavoro e di farsi strada a poco a poco nella società, pensando soprattutto alla propria famiglia”. La terza: “I fondamentalisti (che ci sono un po’ ovunque – NdR: notare questa precisazione) esigono un’applicazione stretta della legge coranica nella società civile. (…) Essi vorrebbero naturalmente attuare questo anche in Europa”. La quarta: “Si chiede dunque all’Occidente di esercitare un discernimento che smascheri gli estremisti e faccia capire che non v’è posto per essi in una società che vuol essere democratica e pluralista”. Quinta considerazione: “In ogni modo va sottolineato che non esiste un solo Islam, ma ci sono in esso varie correnti e obbedienze. Gli estremisti non rappresentano che una voce tra le tante, anche se oggi è la più forte e giustamente può incutere timore”.

    Proseguendo, il cardinale Martini scrive di non aver letto il Corano “per intero, ma solo alcune parti di esso”. Tuttavia si è informato “presso persone competenti, sia in Europa come nei Paesi Arabi”. A proposito del principio di reciprocità osserva il presule ottantaduenne: “Sarebbe bello ottenere la reciprocità in tutto, che cioè anche in questi Paesi si lasciasse piena libertà religiosa”. Però, pur continuando “a far presente tale nostra esigenza”, occorre rilevare che “la mancanza di reciprocità non è una ragione per negare a coloro che vengono da noi i diritti che ammettiamo per tutti”.

    Domenica 25 ottobre il cardinale Oscar Andrès Rodriguez Maradiaga ha presieduto con il vescovo ausiliare di Roma Benedetto Tuzia una concelebrazione eucaristica nella Basilica di San Pancrazio a Villa Doria Pamphili, amministrando la Cresima ad un gruppo di giovani. Chi legge questa rubrica forse si ricorderà che nel numero di settembre l’abbiamo aperta ricostruendo con le parole dell’arcivescovo di Tegucigalpa quanto è successo negli ultimi tempi in Honduras: una ricostruzione molto letta, che non corrispondeva a quella assai pressappochista delle grandi agenzie di stampa internazionali. Alla fine del rito il porporato sessantaseienne, giunto in mattinata a Roma, ci ha espresso un certo ottimismo riguardante un probabile accordo che metta fine a mesi di grande tensione. Il presidente deposto, Manuel Zelaya, ora ospite dell’ambasciata brasiliana, può darsi rinunci a rivendicare una carica che gli è stata legittimamente tolta dalla Corte Costituzionale; in effetti il suo morale è molto basso e del resto i suoi sostenitori diminuiscono continuamente. Rivolgendosi ai cresimandi nell’omelia della santa messa, il cardinale Rodriguez Maradiaga ha definito la Confermazione “il sacramento della maturità in Cristo” e ha citato Giovanni Paolo II sulla necessità di chiamare le cose con il loro nome, cosa “non facile nel mondo di oggi, in cui l’etica sembra essersi staccata dalla vita”. Il porporato salesiano ha citato anche don Bosco, “maestro di santità giovanile” e ha ricordato che la Cresima “non è un episodio, ma deve essere un punto di partenza” per una vita consapevole, fondata sulla responsabilità. In effetti “ricevere oggi il sacramento della Confermazione è da coraggiosi e non da codardi”.

    Il mese di ottobre vaticano è stato caratterizzato da un avvenimento di grande importanza: il secondo Sinodo dei vescovi per l’Africa, preannunciato già da Giovanni Paolo II il 15 giugno del 2004, un desiderio confermato da Benedetto XVI e avviato con la pubblicazione dei Lineamenta il 27 giugno del 2006. 244 i padri sinodali (197 provenienti dall’Africa), cui si sono aggiunti i rappresentanti di sei Chiese e comunità ecclesiali “presenti in modo significativo” nel continente, 28 esperti, 49 uditori.

    La prima citazione rossoporpora in tale contesto riguarda il Relatore generale del Sinodo, cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson. Il sessantunenne porporato ghaneano è stato ufficialmente nominato sabato 24 ottobre (è il Papa stesso che l’ha annunciato ai padri sinodali alla fine di un incontro conviviale) presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Succede così al confratello Renato Raffaele Martino, che ha guidato l’importante dicastero per sette anni. Che la scelta sia caduta su un africano rientra nella normalità delle vicende curiali: l’Africa mancava di un prefetto o presidente dal pensionamento del cardinale Francis Arinze. D’altra parte Justitia et Pax è un dicastero che si occupa molto del continente africano. Il cardinale Turkson inoltre è assai giovane e potrà divenire gradualmente una delle figure più rappresentative della Curia Romana, come è stato il caso dello stesso Arinze e del compianto cardinale Bernardin  Gantin.  L’arcivescovo (ormai emerito) di Cape Coast ha dato buona prova di sé durante il Sinodo, di cui evidenziamo ora alcuni degli interventi cardinalizi africani più significativi. Si vedrà che nelle parole dei porporati non manca la chiarezza (ma anche l’amarezza) della denuncia forte di situazioni intollerabili.

    Tra coloro che si sono prodigati senza risparmio di energie nel preparare il Sinodo troviamo il cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della Congregazione per il Culto divino. Nel suo intervento un passo inconsueto, ma certo non irrilevante, a proposito di giustizia: “Per servire la giustizia del Regno di Dio, la Chiesa ha il dovere di vivere la giustizia innanzitutto al suo interno, tra i suoi membri. Le diocesi devono onorare i contratti con le congregazioni religiose e soprattutto far sì che gli uomini e le donne consacrati, i catechisti, quanti lavorano nelle case parrocchiali e altri dipendenti della Chiesa vengano adeguatamente retribuiti”. Perché “è uno scandalo quando alla fine del mese questi umili lavoratori hanno solo l’acqua santa da portare a casa”. Non finisce qui, perché il settantasettenne porporato ha aggiunto: “I parroci dovrebbero ricordare che le offerte dei fedeli durante l’Offertorio non sono soltanto a favore del clero, ma per i poveri e per la Chiesa in generale, ivi compresi i consacrati e i catechisti”.

    L’ottantatreenne cardinale Bernard Agré ha steso un duro atto d’accusa contro il sistema politico-finanziario che strangola il continente: “Le giovani nazioni dell’Africa hanno dovuto fare ricorso a banche internazionali e ad altri organismi finanziari per realizzare i numerosi progetti volti al loro sviluppo. Molto spesso i dirigenti poco preparati non sono stati molto attenti e sono caduti nelle trappole di coloro, uomini e donne, che gli intenditori chiamano assassini finanziari, sciacalli mandati da organismi avvezzi ai contratti sleali, destinati ad arricchire le organizzazioni finanziarie internazionali abilmente sostenuti dai loro Stati o da altre organizzazioni immerse nel complotto del silenzio e della menzogna”. A chi i profitti di tali operazioni? Ha risposto il porporato ivoriano: “I profitti strabilianti vanno agli assassini finanziari, alle multinazionali e ad alcuni personaggi potenti del Paese stesso che fanno da paravento agli affari stranieri”. La conseguenza è che “la maggior parte delle nazioni continua a marcire nella povertà e nelle frustrazioni che questa genera”. A proposito della questione del debito, il cardinale Agré ha detto che  

    “il debito nazionale sembra una malattia programmata da specialisti degni dei tribunali che giudicano i crimini contro l’umanità, la cospirazione malvagia per soffocare intere popolazioni”.  In realtà “gli esperti sanno che da anni la maggior parte dei debiti è stata effettivamente rimborsata. Sopprimerli, puramente e semplicemente, non è più un atto di carità, ma di giustizia”.

    Il cardinale Théodore-Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar, ha evidenziato tra l’altro che “l’avventura così rischiosa dei migranti clandestini è un vero grido di disperazione, che proclama di fronte al mondo la gravità delle loro frustrazioni e il loro desiderio ardente di un maggior benessere”. Una domanda che ci interpella tutti: “Percepiamo noi questo grido di disperazione e lo lasciamo penetrare nel nostro cuore tanto da cercare di capirne bene il senso e la portata?” Che cosa si può fare? Osserva qui il settantaduenne porporato: “Sappiamo bene che non sono le barriere della polizia, per quanto possano essere invalicabili, ad arrestare la migrazione clandestina, bensì la riduzione effettiva della povertà attraverso la promozione di uno sviluppo economico e sociale che si estenda alle masse popolari del nostro Paese”.

    Il sessantacinquenne cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam, nel suo intervento ha dapprima rilevato che “le guerre i conflitti che affliggono il nostro continente dividono i nostri popoli, seminando una cultura della violenza e distruggendo il tessuto spirituale, sociale e morale della società”. Aggiungendo parole molto significative: “E’ triste dover riconoscere che alcuni di noi pastori sono stati accusati di essere coinvolti in tali conflitti o per omissione o per partecipazione diretta. In questo Sinodo dobbiamo avere il coraggio di denunciare, persino contro noi stessi, l’abuso del ruolo e della pratica del potere, il tribalismo e l’etnocentrismo, lo schieramento politico dei capi religiosi”.

    Amare, preoccupate e pungenti le parole dell’ottantaduenne cardinale Emmanuel Wamala, arcivescovo emerito di Kampala: “Mi rallegro con tutte quelle Chiese particolari che stanno innalzando un inno di ringraziamento per la liberazione dai regimi dittatoriali”. Quel che non riusciamo a comprendere è che una nuova stirpe di dittatori sta sostituendo quella precedente. Preferiremmo chiamarli blandi dittatori, ma sempre di dittatori si tratta”. Perchè “la cultura dei principi democratici, menzionata nei testi, non è quella che cercano di coltivare. Infatti non credono in alcun solido principio democratico. Credono in un unico principio e questo è quello dell’ingegneria politica. Nella maggior parte dei Paesi dell’Africa, la politica esistente è una politica senza Dio. E’ questo stile di leadership che dà origine ai conflitti.”. C’è una possibilità di miglioramento? “Non vedo altra via d’uscita se non l’istruzione. Dovremmo influenzare le famiglie e la scuola affinchè comprendano quei principi democratici fondamentali che troviamo nella dottrina sociale della Chiesa”.    

    Sullo stesso argomento ha parlato con forza il sessantottenne cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban: “Il mostro che usurpa potere contrario alla democrazia non è affatto scomparso. Piuttosto ha cambiato aspetto e modus operandi.” In quale senso? “Può darsi che non esistano più singoli capi che prendono il potere assoluto e si proclamano presidenti a vita. Ma vediamo sempre più i partiti politici prendere il loro posto”. Qualche esempio? “I seguenti Paesi dell’Africa meridionale – Botswana, Angola, Zimbabwe e Mozambico – da quando c’è stata la liberazione sono stati governati, o potremmo dire, dominati dallo stesso partito. Naturalmente non vi è nulla di sbagliato in questo, se l’elettorato conferisce loro il mandato liberamente”. Il fatto è che “alcuni segni stanno però a indicare che non sia questo il quadro”. Gli avvenimenti indicano che in quei casi “il partito ha già compiuto un colpo di Stato”. E, “per aggiungere l’insulto all’ingiuria, il partito si dichiara pro-poveri (…) perfino quando si arricchisce vergognosamente”. C’è da dire che “il colpo di Stato è certamente in atto quando un partito decide di ascoltare i propri alleati ideologici piuttosto che i poveri e i bisognosi  che rappresentano la maggioranza dei suoi elettori”. La situazione è drammatica: in Africa “sempre più leader abbracciano un’ideologia senza Dio e senza vita, che ha portato alla rovina i poveri ovunque si sia imposta”. Perciò “è certamente necessario pregare e operare per un miracolo che porti a una liberazione autentica e sostenibile, non dai colonizzatori, ma stavolta dalla dittatura di tutti i partiti potenti che hanno preso il potere con un subdolo colpo di Stato!”

    Anche il cardinale John Nije, sessantacinquenne arcivescovo di Nairobi, è intervenuto sullo stato della politica in Africa con toni molto preoccupati: “Le lettere pastorali hanno continuamente affrontato il tema del malgoverno, che può essere definito il cancro dell’Africa. E’ questo ad avere impoverito la gente nel continente”. Ad esempio “in Kenya e in Africa in generale è evidente che alcuni leader preferirebbero mantenere delle costituzioni che danno loro un potere incontrollato, portando all’anarchia e alla dittatura. Le violenze post-elettorali in Kenya nel 2008 sono un valido esempio di impunità”.

    Un quadro drammatico del continente africano è stato dipinto anche dal cardinale Anthony Olubunmi Okogie, settantaquattrenne arcivescovo di Lagos: “La vita familiare si sgretola a causa di divorzi, infedeltà e ideologie occidentali incompatibili con la nostra cultura. Le risorse necessarie allo sviluppo della nostra società vengono saccheggiate dai neo-colonialisti. In effetti, sembrerebbe che solo i disonesti si facciano strada nella società. Il nostro morale attualmente è basso e molte persone, compresi alcuni leader della Chiesa, tralasciando ogni prudenza, dicono: A che serve essere buoni?”.

    Nei primi quattro giorni di ottobre Parigi ha ospitato i presidenti delle conferenze episcopali europee. Il tema principale dell’incontro era “Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino”. Ma si è parlato anche di rapporti con i mass-media ed è proprio su tale argomento (titolo: I media e il Papa) che il 3 ottobre si è espresso il cardinale Angelo Bagnasco. Per il sessantaseienne presidente della Cei – che si è riferito soprattutto all’Italia - il ‘quarto potere’ tende non raramente a “dare una rappresentazione riduttiva, che tende a sottodimensionare il Papa testimone e predicatore del Vangelo e a sovra rappresentare il papa intellettuale e politico, a enfatizzare gli interventi ritenuti potenzialmente conflittuali (…) e a trascurare alcuni temi di fondo che rivelano le priorità del Pontificato”. La “deriva mediatica” si è palesata ad esempio a proposito del discorso di Ratisbona oppure del Motu proprio “che consente l’uso della liturgia preconciliare”. Ancora: “Sulla remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, sui chiarimenti circa la natura del dialogo interreligioso, riguardo alle considerazioni sui limiti dell’uso dei preservativi svolte nel corso del viaggio in Africa”. In tutti i casi citati – ha evidenziato il cardinale Bagnasco – dai massmedia “è stata preferita una lettura parziale e non di rado francamente scorretta, che induce a domandarsi se in alcune componenti della cultura e dei mezzi di informazione non si stia facendo strada” un certo tipo di  anticlericalismo, “interessato a nascondere il vero volto della Chiesa e a distorcere il significato del suo messaggio, così che questo risuoni come incoerente o anacronistico e la Chiesa appaia animata solo dalla volontà di alzare muri e scavare fossati, soprattutto in materia etica”. Invece i ‘no’ che “ad un certo punto la Chiesa reputa di dover dire, sono il risvolto esatto di un’etica del ‘sì’, e ancora più a fondo di un’etica dell’amore”. Purtroppo “forse da parte di taluni ambienti si vorrebbe una Chiesa o supinamente allineata sull’opinione che si proclama prevalente e progressista, o semplicemente muta”. Ma “la Chiesa non può venire meno alla propria missione”.  

    Su L’Osservatore Romano del 15 luglio il cardinale Jorge Maria Mejia ricorda alcuni momenti della sua vita vaticana, da esperto nel periodo del Concilio fino alla nomina nel 1998 ad archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Nella lunga intervista l’ottantaseienne porporato argentino ricostruisce la preparazione della storica visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. L’allora monsignor Mejia – che si occupava di ecumenismo ed ebraismo - fu invitato a un pranzo di lavoro al Papa polacco, nei giorni in cui si stava definendo un viaggio papale negli Stati Uniti: a un certo momento Giovanni Paolo II “disse che l’arcivescovo di los Angeles gli aveva proposto di visitare una sinagoga della città”. Richiesto di un parere dal Santo Padre, monsignor Mejia disse che “se si doveva andare in una sinagoga, si sarebbe dovuto incominciare da quella della diocesi del Papa, Roma”. Giovanni Paolo II gli domandò allora se per lui sarebbe stato possibile: “Io risposi che si poteva provare”. Il Papa allora lo incoraggiò: monsignor Mejia contattò il Rabbino Elio Toaff, che rispose con la citazione in ebraico, tratta dal salmo 117: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Toaff aggiunse “che ne avrebbe parlato con il consiglio e che poi mi avrebbe fatto sapere. Cosa che fece il giorno successivo: e la risposta fu positiva”. Il cardinale Mejia è stato compagno di studi di Giovanni Paolo II all’Angelicum. Perciò il Papa polacco lo chiamava a volte con il nome Jorge “ e questo suscitava una certa meraviglia negli altri”. Racconta il porporato: “Ricordo che l’ultimo giorno della sua vita terrena, la mattina del 2 aprile 2005, sono salito nell’appartamento pontificio e mi sono messo in ginocchio accanto a lui, prendendolo per mano. Ho visto la sua faccia sofferente, ma cosciente. Ha voltato la testa e allora gli ho detto: Santo Padre, sono Jorge”. Lui ha fatto un cenno con gli occhi e allora gli ho sussurrato in spagnolo: La vida por usted”.  

    Nel quarto numero del bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Vita e pensiero, è uscita un’ampia riflessione del cardinale Giacomo Biffi intitolata “Dopo la morte: i cristiani e l’aldilà”. L’ha anticipata L’Osservatore Romano del 6 settembre, apponendole il titolo “Non saremo come acciughe in un barile” ed evidenziando un paio di considerazioni particolarmente sapide come “Mi piace pensare che il nostro purgatorio sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita” o “La dottrina rivelata non ci dà nessuna indicazione sul numero dei dannati. Ma affermare che l’inferno è perfettamente vuoto è un’asserzione infondata, incauta, superficiale”.

    In questa sede occupiamoci di ciò che l’ottantunenne porporato ha scritto a proposito della ‘fine del mondo’. Questo l’esordio: “Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tuitte di uno sconvolgimento cosmico terribile. (…) Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera”. Anche il ‘quando’ resta indefinito, pur “se è sempre stato oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana”. Però, “se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data”, perché “il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina”. In ogni caso come ci si potrà accorgere dell’avvicinarsi della ‘fine del mondo’? Considera l’arcivescovo emerito di Bologna: “Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo.” Tuttavia come sarà riconosciuto? “La sua natura è discussa e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo”. Esistono perciò le premesse “per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione”. In ogni caso, conclude il cardinale Biffi,  “nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di sorpresa, così ripetutamente attribuito dal libro sacro all’ultimo giorno della nostra storia”.  

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