SCHOENBORN A MEDJUGORJE

ROSSOPORPORA DI GENNAIO 2010 SU 'IL CONSULENTE RE ONLINE'

A fine anno il cardinale Schoenborn è stato in pellegrinaggio a Medjugorje, ribadendo la validità dei frutti del fenomeno mariano. Un'opinione diversa del cardinal Saraiva Martins. Sul dialogo interreligioso si esprimono i cardinali Vlk e Tauran (che riflette anche sul voto svizzero contro la costruzione di nuovi minareti). I cardinali Hummes e Danneels sui rapporti con gli anglicani. Per il cardinale Husar dialogo ecumenico non facile in Ucraina. Il cardinale Tettamanzi e i giornalisti. L'Italia dalle radici antiche di Angelo Bagnasco

Dal 28 dicembre, per alcuni giorni molto intensi, il cardinale Christoph Schönborn è stato a Medjugorje, ospite della comunità Cenacolo: è salito al ‘colle delle apparizioni’ con la veggente Marjia Pavlovic-Lunetti, ha presieduto l’Adorazione nella chiesa di San Giacomo (dove ha tenuto anche una catechesi), il 31 ha presieduto la veglia di preghiera con santa messa in latino nella chiesa parrocchiale insieme con i francescani (come apprendiamo dal Vatican Service News). Il 15 gennaio, a Roma per la plenaria della Congregazione per la Dottrina della fede, è stato ricevuto in udienza da papa Benedetto XVI cui ha riferito della visita. Almeno è quanto emerge da un’intervista per il suo sessantacinquesimo compleanno (il 22 gennaio) rilasciata all’agenzia austriaca Katholischer Nachrichtendienst: “Non è usuale riferire delle udienze – ha rilevato – Ma posso naturalmente dire che Medjugorje a Roma è stato un argomento al centro dell’attenzione a causa del mio pellegrinaggio. A Roma ho esposto le mie impressioni. E sono molto fiducioso sul fatto che la commissione voluta dal Papa per esaminare gli avvenimenti di Medjugorje lavori molto bene e con grande senso di responsabilità”. Per l’arcivescovo di Vienna tale commissione avrà prudenza e sensibilità adeguate per valutare un fenomeno “ che ha già attirato una trentina di milioni di pellegrini, porta tanti frutti molto buoni e certamente lascia anche qualche domanda aperta”.

Già il 15 settembre 2009 il cardinale Schönborn aveva avuto nel gremito duomo di Santo Stefano a Vienna un incontro di preghiera insieme con la veggente Marjia Pavlovic-Lunetti. Durante il quale aveva detto: “E’ un grande dono che la Madre di Dio desideri essere così vicina a tutti i suoi figli! Lei lo ha mostrato in così tanti luoghi del mondo, e già da molti anni in un modo del tutto particolare mostra la sua vicinanza a Medjugorje. Possiamo essere grati al Signore perché attraverso Sua Madre in quasi 30 anni ha condotto così tante persone all’amore di Dio, perché ha mostrato loro il Suo amore e perché così tanti hanno sperimentato la guarigione ed il rinnovamento. Nella Confessione hanno potuto scoprire l’amore verso il Signore Eucaristico e, ringraziando Sua Madre, anche l’amore verso di Lei. La riconciliazione nelle famiglie, la guarigione dalla droga, dalle dipendenze e dalle altre miserie sono i suoi desideri. E’ un grande segno del nostro tempo che Maria si occupi dei suoi figli e dimori in mezzo a loro così concretamente, tanto da vicino e così semplicemente (…) Mostrate ciò che avete ricevuto e ciò che costantemente ricevete qui attraverso le grazie di Medjugorje, mostratelo e trasmettetelo agli altri”. Un anno prima (il 17 settembre 2008) il porporato  aveva già ricevuto in arcivescovado un altro veggente, Ivan Dragicevic.

Di ritorno da Medjugorje, il 3 gennaio l’ex-allievo del professor Ratzinger a Ratisbona (fa parte anche del famoso Schülerkreis) ha illustrato alla stampa diocesana le sue impressioni; il giorno dopo ne ha parlato a Radio Stephansdom. Per il cardinale la visita era giustificata dai “molti positivi frutti” di Medjugorje, un “fenomeno da sdrammatizzare”. Medjugorje appare oggi come “una scuola di una normale vita cristiana”. Che cosa spinge i pellegrini a Medjugorje? “Prima di tutto una cosa: la preghiera. Ogni giorno migliaia di persone recitano i salmi, fanno l’adorazione, si confessano, partecipano alla messa, salgono sulla collina dicendo il rosario”. Il cardinale Schönborn ha lodato “il grande numero di opere sociali sorte a Medjugorje” come la comunità Cenacolo per tossicodipendenti (cha a Medjugorje ha ricevuto l’impulso per una diffusione in altri Paesi) o il Majcino selo (Villaggio delle madri) che dal tempo delle guerre balcaniche dà asilo a orfani e donne violentate.  Molti aspetti di Medjugorje, ha evidenziato ancora il porporato, richiamano la “grammatica delle apparizioni mariane”: Maria viene venerata soprattutto come “Regina della pace”; i messaggi sono semplici, facilmente comprensibili e “a Medjugorje diventa chiaro che la riconciliazione con Dio è il modello della riconciliazione fra gli uomini”. Forse, ha concluso il cardinale Schönborn, “nella Chiesa dovremmo farci ispirare di più da questo concetto pastorale di Maria”.

Su Medjugorje la pensa in modo diverso il cardinale José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi. In un’intervista del 12 gennaio al quotidiano online Petrus il porporato portoghese rileva dapprima che “le apparizioni non vanno considerate autentiche fin quando non saranno approvate definitivamente dalla Chiesa nella persona del Santo Padre”. Per il presule settantottenne “la Chiesa fa benissimo a essere prudente davanti a vicende così delicate che, inevitabilmente, coinvolgono la sensibilità di milioni di fedeli”. Chi va oggi a Medjugorje “non deve dare per scontato e non deve essere convinto che le apparizioni siano autentiche; deve quindi recarsi in quel luogo per pregare, ma non per riconoscere con la sua presenza la veridicità di fenomeni la cui approvazione dipende solo ed esclusivamente dalla Chiesa e che, comunque, nulla tolgono e nulla aggiungono alla Rivelazione che si è già compiuta in Cristo”. Per il cardinale Saraiva Martins “quello delle conversioni, ma anche delle guarigioni, non è un argomento sufficiente per avvalorare la tesi dell’autenticità delle apparizioni”. Di più: “Solo perché in quel luogo ci si converte, non è detto che appaia la Madonna. La conversione è possibile anche in una piccola parrocchia di campagna”.

I veggenti? Dice il prefetto emerito delle Cause dei Santi: “Non so se si siano inventati queste apparizioni o se abbiano interessi economici; di sicuro, in casi del genere, può esserci lo zampino del demonio”. Ancora: “La vita consacrata sarebbe stata una bella testimonianza da parte di queste persone, ma vedo che c’è una grande differenza con Fatima, dove i tre pastorelli scelsero di essere ancora più piccoli e umili di quanto non fossero già per vivere in pienezza il grande dono delle apparizioni”. Non è finita: “Non vedo punti in comune tra Fatima e Medjugorje”. E il cardinale Schönborn? “Lungi da me l’idea di giudicare il comportamento del cardinale Schönborn, ma io, considerata l’attenzione morbosa che è concentrata su Medjugorje, come faccio peraltro sempre ogni volta che mio reco fuori Roma, avrei prima parlato con monsignor Peric: quando noi cardinali ci rechiamo in una diocesi, entriamo in ‘casa’ del vescovo del luogo e dobbiamo avere l’educazione e il buon senso di annunciarci”.

Il tema dei rapporti con l’Islam è sempre in primo piano nelle riflessioni di molti cattolici. In una lunga intervista di bilancio dei suoi diciannove anni da arcivescovo di Praga, il settantasettene cardinale Miloslav Vlk ha messo in guardia dall’islamizzazione dell’Europa. Nell’intervista, apparsa il 5 gennaio sul sito www.kardinal.cz , il porporato ricorda che “alla fine dell’età medievale e all’inizio di quella moderna l’islam non è riuscito a conquistare militarmente l’Europa, perché i cristiani lo sconfissero”. Ma “oggi la lotta islamica è fatta con armi spirituali” e l’islam “è ben armato” al contrario dell’Europa, la cui “caduta è all’orizzonte”. Per il cardinale Vlk l’Europa “ha rinnegato le sue radici” e “pagherà caro questo abbandono”; i musulmani riempiranno il vuoto spirituale se “i cristiani non si svegliano”. Devono farlo subito, poiché “forse abbiamo ancora dieci anni, non di più, per contrastare tale sviluppo”. In questi anni l’islam si è diffuso in Europa, ha rilevato ancora il presule (che sotto il regime comunista fu costretto a fare il lavavetri), grazie soprattutto all’immigrazione e all’alto tasso di fecondità.

La dimostrazione del fatto che sul tema c’è dissonanza di opinioni (almeno fino a un certo punto) anche a livello di gerarchie è l’intervista che il cardinale Jean-Louis Tauran ha rilasciatato a L’Osservatore Romano del 5 gennaio, sotto il titolo “Libertà e reciprocità alla base del dialogo tra le religioni”. Il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso racconta del suo recente viaggio in Indonesia: “L’Indonesia rappresenta un esempio particolare di convivenza pacifica tra le religioni. L’88% della popolazione è musulmana; rappresenta il 22% dei musulmani di tutto il mondo. Il 98% è sunnita. Pochissime frange estremiste. Tanto è vero che gli episodi di intolleranza religiosa sono molto rari”. Insomma un esempio consolante in un contesto continentale in cui si moltiplicano invece gli atti sanguinosi contro i cristiani. Continua il porporato francese: “Nel Paese sostanzialmente si respira un clima di armoniosa integrazione istituzionale, che naturalmente coinvolge anche la piccola comunità cristiana, soltanto il 3% della popolazione”. Per il presule sessantasettenne “l’integrazione è resa più facile in virtù della filosofia sulla quale si fonda la società indonesiana, la pancasila, che si basa su cinque principi essenziali: un unico Dio, un’umanità riconciliata, l’unità dell’Indonesia, la democrazia, la giustizia sociale”. L’esperienza indonesiana è dunque “positiva”, anche grazie “alle quindici università cattoliche che ne arricchiscono il panorama formativo, considerate un fiore all’occhiello”. Il cardinale Tauran ha consigliato ai vescovi indonesiani “di dedicare almeno una domenica l’anno proprio al dialogo tra le religioni” e “alle autorità musulmane di rivedere un po’ i testi scolastici, perché spesso il cristianesimo viene presentato in maniera non sufficientemente corretta”.

Successivamente il porporato francese ha rilevato, a proposito del prossimo Sinodo per il Medio Oriente (vedi anche in ‘Attualità’ l’articolo sulla presentazione dei ‘Lineamenta’) che “sarà un’assemblea di tenore eminentemente pastorale” e “sarebbe insensato attendersi dal Sinodo una soluzione politica per la convivenza tra israeliani e palestinesi”. A proposito degli ostacoli a un proficuo dialogo interreligioso con l’islam, il cardinale Tauran ha affermato: “Noi non possiamo tollerare, per esempio, che i nostri luoghi di culto siano ridotti, in alcuni Paesi islamici, a semplici musei”. Sulla libertà religiosa, ha rilevato l’intervistato che “attualmente la libertà di culto è assicurata in diversi Paesi islamici, per esempio in quelli del Golfo, a eccezione dell’Arabia Saudita dove quasi due milioni di cristiani non hanno alcuna possibilità di riunirsi per le loro celebrazioni o per pregare. Per questo hanno la sensazione, più netta in certi Paesi, di non essere considerati veri cittadini. Si sentono tollerati piuttosto che partner in un dialogo pubblico. E ciò non fa bene a nessuno”.

All’inizio dell’intervista il cardinale Tauran era tornato sul voto svizzero del 29 novembre in materia di minareti (di cui “Il Consulente RE” si è occupato ampiamente nei numeri di ottobre e dicembre, evidenziando anche il SI all’iniziativa ovvero il NO ai minareti di tutti i cantoni cattolici e della maggior parte di quelli protestanti). Per il porporato “il risultato suscita alcuni interrogativi fondamentali”. Dapprima “chiama in causa la questione del ruolo dell’islam nell’Europa di oggi e in quella di domani. Per giustificare l’esito del referendum svizzero sono state dette tante cose”. Secondo il cardinale Tauran “la più inquietante è stata quella di mettere in relazione il risultato negativo con un sentimento di paura nei confronti dell’islam”. Giusto chiedersi “se queste persone conoscono i musulmani, se hanno mai aperto il Corano. L’ignoranza è la madre di tutte le derive e molto spesso è la causa di tante incomprensioni”.  Perciò “la cosa principale da realizzare, in questo momento, è la mutua conoscenza”.  

Un’interessante intervista a proposito (anche) di sacerdoti e celibato l’ha rilasciata a L’Osservatore Romano del 13 gennaio il cardinale Claudio Hummes. Per il prefetto della Congregazione per il Clero “da molte parti viene raccomandata attenzione a quanti, sacerdoti, chiedono la dispensa, anche perché desiderano sposarsi”. Certamente “la Chiesa non abbandona nessuno; nessuno viene escluso dall’amore, dalla fraternità”. Neppure – ha continuato il porporato settantacinquenne – “quanti ancora non hanno adottato la decisione di chiedere la dispensa, che è sempre la cosa migliore da fare in certi casi”. Perché “chi ha di fatto abbandonato il ministero o chi comunque non è più nelle condizioni necessarie per andare avanti, è chiamato a regolarizzare la situazione, come sacerdote, davanti a Dio, davanti alla Chiesa e davanti alla sua stessa coscienza. Proprio per rendere più semplici certi passaggi il Papa ha conferito alla nostra Congregazione facoltà speciali in questo senso”.

A proposito della Costituzione apostolica “ Anglicanorum coetibus”, il porporato francescano ha rilevato: “La Chiesa cattolica non ha fatto altro che aprire le porte, come è nel suo stile di accoglienza. Agli anglicani venuti tra di noi essa offre la possibilità di vivere la fede, anche se in una forma un po’ diversa, mantenendo cioè alcune caratteristiche del loro rito, della loro spiritualità, della loro liturgia, cioè tutto ciò che rende possibile di vivere senza compromettere l’unità e la comunione ecclesiale”. Quanto accaduto – ha concluso il presule brasiliano – “lo considero un fatto molto positivo, anche se sono consapevole che ci sono ancora alcune cose da aggiustare, da verificare”. La Costituzione apostolica “è l’espressione di quella libertà di coscienza e di quella libertà religiosa che si professano nella Chiesa cattolica, aperta a chiunque voglia condividerne la comunione”.

Sullo stesso argomento, nel contesto di un’ampia intervista a 30Giorni (10-11/2009), il cardinale Godfried Danneels è più problematico: “Bisognerà aspettare qualche anno per vedere se quella presa sarà stata la soluzione migliore. Vedremo dai risultati”. Tuttavia, osserva il settantaseienne arcivescovo (da poco emerito) di Malines-Bruxelles, “in generale mi sembra che nelle relazioni tra cattolicesimo e anglicani si registri una certa sfiducia. La visita di Rowan Williams (Ndr: il 21 novembre scorso) al Papa è stata importante, ma ho letto il discorso di Rowan alla Gregoriana e ci ho trovato una certa nota di disillusione. Non era certamente entusiasta”. L’intervista riserva diversi altri momenti assai interessanti. Sui trent’anni passati alla testa dell’arcidiocesi rileva: “Penso che la stabilità, in una diocesi, sia molto importante. Cambiare sede ogni cinque o dieci anni, lo fanno un po’ in Francia: diventano vescovi in una piccola diocesi, poi in una più grande, poi in una ancora più grande…Per carità, è successo anche a me. Ma penso che stare in un posto per un tempo lungo sia importante. Essere rimasto solo due anni ad Anversa è stato un po’ frustrante. Per me, ed anche per i fedeli di quella diocesi”. Al cardinale Danneels si sono non raramente rimproverati modi troppo discreti, mollicci nell’affrontare questioni brucianti per i cattolici belgi… “Certo il mio temperamento c’entra qualcosa. Ma anche nella Bibbia c’è scritto che il servo di Dio non levava la voce nelle strade (…) Io ho lavorato dalla mattina alla sera. Ma non ho gridato. Per gridare ci sono gli urlatori. Io non lo sono. E poi c’è il metodo di Paolo, che comincia a profetizzare nelle piazze. E va bene. Ma c’è anche il metodo di Maria. Che è come quello della stufa, che senza dire niente riscalda tutti quelli che le sono intorno”.

Che il cardinale Danneels (il cui successore per Malines-Bruxelles è stato nominato il 18 gennaio, il sessantanovenne arcivescovo André-Mutien Léonard) non ami per temperamento la piazza è provato anche da una risposta assai insolita data a una domanda sulla causa di beatificazione di Giovanni Paolo II. La riproduciamo integralmente: “Io penso che si doveva rispettare la procedura normale. Se il processo di per sé avanza velocemente, va bene. Ma la santità non ha bisogno di passare per corsie preferenziali. Il processo si deve prendere tutto il tempo che serve, senza fare eccezioni. Il Papa è un battezzato come tutti gli altri. Dunque la procedura di beatificazione dovrebbe essere la stessa prevista per tutti i battezzati. Certamente non mi è piaciuto il grido Santo, subito! Che si è sentito ai funerali, in piazza San Pietro. Non si fa così. Qualche tempo fa hanno anche detto che si trattava di una iniziativa organizzata, e questo è inaccettabile, Creare una beatificazione per acclamazione, ma non spontanea, è una cosa inaccettabile”. Tra le cose che il porporato fiammingo spera di riuscire a fare da emerito di Malines-Bruxelles c’è il pregare: “Quando sei vescovo, è davvero un combattimento quotidiano riuscire a trovare il tempo” per farlo. Poi lo studio della Bibbia, “riposarmi un poco; avere il tempo di guardare gli alberi, i fiori, la natura; ascoltare un po’ di musica”, in particolare “tutto quello che comincia con la b: Bach, Beethoven e i Beatles”.

Nel numero di dicembre di Paulus appare anche un’intervista al cardinale Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc (Kiev), che guida la Chiesa greco-cattolica ucraina. Per il presule “l’Ucraina è un Paese molto particolare”, dato che “mille anni fa era la Rus di Kiev, interamente cristiana grazie al principe san Volodymyr (978-1015), che scelse il cristianesimo e fece battezzare tutta la popolazione”. Oggi esistono, ha proseguito il porporato settantaseienne, “quattro Chiese orientali maggiori: noi e tre ortodosse, delle quali due autocefale – non riconosciute da alcun patriarcato ortodosso – e una sola legata a Mosca”. In tale contesto “la Chiesa greco-cattolica ucraina cerca di fare da ponte”. Da ciò consegue che i rapporti sono in forma di “semplici contatti”, senza un’apprezzabile continuità ed anche variabili. Per il cardinale Husar “negli ultimi anni c’è stato un peggioramento”. Tuttavia “noi, nonostante ciò, ci sforziamo di tendere la mano. A livello ufficiale siamo tutti presenti nel Consiglio panucraino delle Chiese e delle organizzazioni, nel quale rientrano anche mebri delle comunità ebraiche e musulmane”. Il porporato ha voluto ricordare anche che Giovanni Paolo II nel 2001 definì l’Ucraina “un vero caso ecumenico”.

Il 23 gennaio (vigilia di san Francesco di Sales) il Circolo della stampa di Milano ha ospitato l’annuale incontro tra il cardinale Dionigi Tettamanzi e i giornalisti, presenti come relatori anche i direttori del Corriere della Sera De Bortoli, di Repubblica Mauro e di Avvenire Tarquinio, oltre a Chiara Giaccardi, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il settantacinquenne porporato nel suo ampio intervento ha tra l’altro ribadito che “la Chiesa non è interessata tanto a notizie che parlano di lei e delle sue vicende, delle sue attività, delle gerarchie, dei retroscena, bensì ha a cuore la buona notizia di Gesù Cristo”. La realtà però mostra che “quasi sempre, quando si parla di comunicazione della Chiesa, in realtà si tratta di informazione sulla Chiesa e non di comunicazione della Chiesa e della sua missione”. Ed è anche evidente che “la realtà e la verità della Chiesa sono ben oltre la loro rappresentazione”. Questo – ha proseguito l’arcivescovo di Milano – “traspare ad esempio quando sentiamo affermare: Non credo nella Chiesa, ma mi fido del mio parroco”. Allora “Quella che viene contestata non è forse l’immagine complessiva della Chiesa veicolata dai media, differente da quella che il singolo può direttamente sperimentare?” Si è chiesto qui il cardinale Tettamanzi: “Quanto coloro che fanno comunicazione sanno della Chiesa autentica che è oltre lo strumento?”.

Ha poi evidenziato il presule brianzolo: “Una delle tendenze della comunicazione è di ‘personalizzare’, di soggettivizzare, di ridurre i protagonisti della cronaca, delle istituzioni, della Chiesa a dei ‘tipi’, quasi si fosse in una sofisticata commedia dell’arte o in un romanzo ben congegnato, elevando così il particolare a universale, ingrandendo a tal punto un frammento (di vita, di verità, di cronaca…) fino a farlo diventare il tutto di quella persona, di quella situazione”. C’è però un rischio, “quando quella storia particolare diventa paradigmatica di tutto un gruppo, un paese, una comunità”; tuttavia “la realtà è più complessa di queste semplificazioni”. Del resto, ha rilevato il cardinale, “capita anche a me: qualche intervento – giusto e doveroso – in difesa della dignità di alcune categorie di persone mi porta a essere identificato come il Vescovo di alcuni e non di tutti”.

Un’analoga tendenza semplicistica si ritrova anche “in un certo modo di fare comunicazione che – in particolare a proposito della Chiesa – porta alla rappresentazione di particolari correnti e schieramenti, quasi si fosse in presenza di un partito politico o di cordate che intendono scalare i vertici di un’azienda”. Certamente, ha evidenziato il presule, “la Chiesa ha la sua gerarchia: ad alcuni suoi componenti sono affidate responsabilità grandi e hanno più occasioni per essere visibili”. Però “la vita della Chiesa non si può ridurre all’azione di chi ha più visibilità mediatica di altri”.

A proposito di Chiesa “santa e cattolica” ha osservato il cardinale Tettamanzi, sempre rivolgendosi alla platea di giornalisti al Circolo della Stampa di Milano: “Siete voi a insegnarmi che tra i motivi per i quali un fatto diviene notizia vi è l’importanza della persona coinvolta e la non convenzionalità dell’azione”. Perciò: “Una persona qualsiasi cui viene ritirata la patente di guida per eccesso di velocità, non fa certamente notizia. Lo diviene – una taglio basso in pagina interna nazionale? – qualora l’infrazione venisse commessa da un big della politica. Finirebbe certamente in prima pagina – immagine – se il fatto dovesse essere commesso dall’arcivescovo di Milano…”.  Qui ha rilevato il relatore: “Giusto che chi ha posti di responsabilità (nel Paese, nella Chiesa, nell’impresa…) sia esemplare anche nei comportamenti privati, ma – mi chiedo – sono sempre rispettate le persone e il diritto alla riservatezza? Non c’è – a volte – la volontà di discreditare, di demolire, di relativizzare, di rendere normali certi comportamenti perché così fan tutti?”. Non sorprende che “gli uomini di Chiesa non siano tutti santi”. Infatti “la Chiesa è santa, perché è santo il suo capo e perché custodisce realtà sante”. Perciò, da una parte “non ci deve essere censura a proposito degli errori delle donne e degli uomini di Chiesa”; d’altro canto non si deve cadere nell’eccesso opposto dell’attenzione morbosa, dell’eccessiva esposizione di alcuni comportamenti presentati come notizie (o scandali) solo perché messi in atto da persone di Chiesa”.

Giovedì 21 gennaio l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede ha ospitato (è ormai una bella consuetudine) un avvenimento culturale con risvolto religioso: la presentazione del volume I viaggi di Benedetto XVI in Italia (a cura del professor Pierluca Azzaro e frutto della collaborazione tra l’ambasciata stessa e la Libreria editrice vaticana/Lev). Illustri i relatori: accanto al cardinale Angelo Bagnasco, Gianni Letta, don Giuseppe Costa (direttore della Lev) e l’arcivescovo Fernando Filoni, Sostituto della Segreteria di Stato e deputato a seguire – nella prima macchina dopo quella papale e dunque da un punto d’osservazione privilegiato – le visite del Pontefice nella Penisola. Per il presidente della Cei “i viaggi in Italia di papa Benedetto XVI vanno inquadrati nel più ampio contesto delle molteplici attenzioni che egli ha per quella che è diventata da quasi trent’anni, e ancor più dalla sua elezione al Supremo Pontificato, la sua terra d’elezione”. Benedetto XVI – ha detto il cardinale Bagnasco – “ama l’Italia con affetto di padre e l’Italia lo ricambia con affetto filiale”. Tanto è vero che “tutti abbiamo vive negli occhi, e soprattutto nell’anima, le immagini di folle di adulti, di bambini, di giovani… che esprimono una gioia umanamente inspiegabile e che provoca pensosità, si rivela contagiosa e benefica”. Non è una gioia effimera e folcloristica, “ma ha radici antiche e le rafforza, sprigionando sentimenti ed energie che a volte – nel panorama generale – sembrano spenti”. Il porporato sessantanovenne, come poi Gianni Letta, ha accennato anche al tema dei rapporti tra Chiesa e territorio, “rapporto millenario e sempre attuale tra i campanili e le piazze nel nostro Paese: rapporto di mutuo riconoscimento, di rispetto, di franca collaborazione”.