IL RABBINO DI SEGNI DOPO LA VISITA PAPALE IN SINAGOGA

IL RABBINO CAPO DI SEGNI DOPO LA VISITA PAPALE IN SINAGOGA: CAMMINO TORMENTATO, SPERIAMO IRREVERSIBILE - 'IL CONSULENTE RE ONLINE' DI GENNAIO 2010

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Dopo aver ascoltato le considerazioni del cardinale Walter Kasper sulla visita di Benedetto XVI in Sinagoga, saliamo ad intervistare nel suo ufficio il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni.

Nato nel 1949, primario di radiologia presso l’ospedale San Giovanni di Roma, Di Segni guida religiosamente la comunità della capitale dal novembre del 2001, successore di Elio Toaff. Non è questo un momento particolarmente facile per i rapporti tra ebraismo e cattolicesimo; lo si evince anche dai contenuti dell’intervista che segue. Del resto, se una larga maggioranza della comunità romana ha accolto cordialmente papa Benedetto XVI, alcuni nomi di rilievo dell’ebraismo italiano hanno criticato la visita, dal rabbino Giuseppe Laras (presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana) a Amos Luzzatto (già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane) a Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz. Anche l’Unione degli studenti ebrei ha espresso perplessità sull’avvenimento in un volantino distribuito subito dopo il ritorno del Papa in Vaticano. Tuttavia l’incontro in Sinagoga ha avuto diversi momenti di forti emozioni, come quando spontaneamente il Papa si è alzato in piedi per rendere omaggio ai sopravvissuti della Shoah presenti nel tempio o durante alcuni passi del discorso dello stesso Pontefice. Al Rabbino capo di Roma abbiamo chiesto di spiegarci tra l’altro il senso di alcune considerazioni espresse nel suo discorso. A seguire le sue risposte, non certo prive di contenuti assai vivaci.

 

Signor Rabbino Capo di Roma, Lei avrà visto titoli e commenti sulla visita di papa Benedetto XVI in Sinagoga…

Sì…

Riguardo al cammino di fratellanza tra ebrei e cattolici, si pone in genere l’accento su due aggettivi, ritenuti in questo caso complementari: un cammino irreversibile e tormentato… E’ questa una lettura corretta in riferimento alla visita del Pontefice?

Che il cammino sia tormentato è indubbio, che sia irreversibile è una speranza.

A tale proposito nell’editoriale pre-visita del mensile ebraico Shalom, a firma di Giacomo Kahn, si leggeva tra l’altro: “Se non ci sarà chiarezza di contenuti e di finalità, sarà forte la tentazione di interrompere il dialogo, perché in fondo ciascuna delle due fedi ha in sé la certezza stessa – o forse l’arroganza – di pensare che noi esistiamo a prescindere da voi”…

 … con una differenza però: gli ebrei si possono permettere il lusso di pensare che gli altri non esistano, perché loro esistono prima. Invece i cristiani, che sono radicati nell’ebraismo, se vogliono pensare questo, dovrebbero tagliare le loro radici… a volte l’hanno fatto, ma…

Come ha detto Giovanni Paolo II, in occasione della visita del 13 aprile 1986, gli ebrei sono i “fratelli maggiori”…

Questa definizione è molto ambigua dal punto di vista teologico, poiché i “fratelli maggiori” nella Bibbia – ne ho parlato nel mio discorso – sono quelli cattivi, quelli che perdono la primogenitura… Parlare quindi di “fratelli maggiori” dal punto di vista teologico significa dire: Voi c’eravate, adesso non contate più niente!

Perché ha citato nel Suo discorso quattro esempi di coppie di fratelli , a partire da Abele e Caino, Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù, infine ha ricordato Giuseppe e gli altri fratelli?

Devo dire che il mio discorso non è nato in una notte. Considerata l’importanza dell’avvenimento, ho consultato diverse personalità rabbiniche. Una di loro mi ha suggerito di parlare di questo tema, che è molto suggestivo e rappresenta effettivamente il senso del difficile procedere come fratelli. E’ stata per me una sorpresa constatare che l’argomento ha toccato profondamente il Papa: dalla posizione ieratica in cui si era messo all’inizio della cerimonia, ha incominciato a mostrare grande interesse. Non solo: alla fine del mio discorso m’ha detto che l’argomento era molto importante, ciò che ha evidenziato ancora nel nostro colloquio privato.

Però, restando sull’argomento, c’è qualcosa che vorrei mi spiegasse: nelle coppie di fratelli, chi rappresenta gli ebrei, chi i cristiani? Secondo la primogenitura sarebbe chiaro…

Su questo c’è una divergenza teologica fondamentale. Se Lei prende la Lettera ai Romani, gli ebrei sono Esaù. In quella ai Galati addirittura siamo i figli della serva. Invece nell’immagine tradizionale ebraica Esaù è Roma…

Quale Roma?

Roma imperiale e poi la sua erede Roma cristiana. C’è un conflitto di pensieri simbolici su questo argomento.

Lei, signor Rabbino Capo, ha fatto nel Suo discorso un’altra precisazione, certo non casuale, sulla Terra santa: “La terra è la terra d’Israele, e in ebraico letteralmente non è la terra che è santa. Ma è eretz haQodesh, la terra di Colui che è Santo”. Anche qui, perché la precisazione?

Anche questa è una cosa che ha fatto molta impressione all’Illustre Ospite. Noi non idolatriamo la terra, ma noi prestiamo il culto al Signore che dà sacralità alle cose. Ho introdotto la precisazione per ribadire che quella specifica terra è prediletta dal Signore, che la dà a chi vuole Lui. E’ un tema biblico fondamentale.

Nel suo discorso papa Benedetto XVI ha richiamato alcuni campi di auspicabile “collaborazione e testimonianza”: l’azione per risvegliare nell’uomo la dimensione del Trascendente, quella per il rispetto e la protezione della vita, quella per conservare e promuovere la santità della famiglia formata da uomo e donna. Inoltre anche nell’esercizio della giustizia e della misericordia, ha detto il Papa, richiamando un “mirabile detto dei Padri d’Israele”. Lei condivide in toto, si riconosce in questi campi di collaborazione così come evidenziati da Benedetto XVI?

Direi che sono tutti campi condivisibili…

Condivisibili o condivisi?

Sono sostanzialmente condivisi…

Sostanzialmente?

Sì… poi nelle applicazioni incominciano le discussioni… ma non sono gli unici. Per esempio io ho parlato ad esempio dell’ambiente, aggiungerei anche la sacralizzazione del tempo…

Può spiegare che cosa intende con quest’ultima espressione?

C’è un tempo per costruire, uno per riposare, per riflettere sulla nostra posizione di esseri creati che devono rispettare la Creazione… il tempo è ritmico secondo la scadenza del Sabato, che per noi ha un valore religioso fondamentale. Ciò proprio per insegnare all’uomo a rapportarsi correttamente alla Creazione. E’ un discorso essenziale nel nostro mondo contemporaneo.

Un altro passo del Suo discorso ha suscitato un vivo interesse, quando ha richiamato le “aperture” del Concilio ecumenico vaticano II, aggiungendo: “Se venissero messe in discussione, non ci sarebbe più possibilità di dialogo”. Perché ha voluto inserire questo ‘ammonimento’?

E’ stata l’ultima aggiunta al discorso, dopo che venerdì mattina 16 gennaio c’è stata una strana apertura ai lefevriani…

Perché strana? Il Papa in quell’occasione ha parlato alla Congregazione per la Dottrina della fede riunita nell’annuale assemblea plenaria. Ed è tale Congregazione che si occupa oggi dei lefevriani… il Papa ha solo espresso l’auspicio che vengano “superati i problemi dottrinali che permangono per il raggiungimento della piena comunione con la Chiesa” da parte dei lefevriani…

Se la pace con i lefevriani significa rinunciare alle aperture del Concilio, la Chiesa dovrà decidere: o loro o noi!

Signor Rabbino Capo, c’è un momento durante la visita che L’ha coinvolta particolarmente?

Ci sono stati vari momenti: l’ingresso del Papa in Sinagoga è sempre un gesto di estrema radicalità, poi quando il coro ha cantato Anì Maamin, il canto dei deportati…

Il fatto che Benedetto XVI si sia alzato spontaneamente per rendere omaggio ai sopravvissuti di Auschwitz L’ha colpita?

Sì, decisamente sì.

Anche chi assisteva ha vissuto con ulteriore emozione quel momento, come si è evinto dagli applausi. Un’ultima domanda: sebbene nel testo scritto non apparisse, il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici all’inizio ha voluto ringraziare la Comunità di Sant’Egidio, molto applaudita…

La Comunità di Sant’Egidio è un bell’esempio di collaborazione, è stata fondamentale. Ha fatto di tutto per promuovere la visita, ha fatto molto per salvarla nel momento della crisi.