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    AIUTO CHIESA CHE SOFFRE: RICOSTRUIRE IN IRAQ - IL RUOLO DELL'UNGHERIA

    AIUTO CHIESA CHE SOFFRE: RICOSTRUIRE IN IRAQ - IL  RUOLO DELL’UNGHERIA- di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 7 ottobre 2017

     

    La Fondazione di diritto pontificio ha promosso alla Lateranense un convegno ad alto livello per riflettere sulla situazione dei cristiani in Iraq e per illustrare il progetto di ricostruzione di circa 13mila abitazioni nella Piana di Ninive. Tra i presenti i cardinali Parolin e Piacenza, il patriarca caldeo Sako, il nunzio apostolico in Iraq e Giordania  e diversi altri diplomatici, tra i quali – li abbiamo brevemente intervistati - il responsabile dell’Ufficio ungherese per i cristiani perseguitati e il suo inviato speciale.

     

    Oggi, sabato 7 ottobre, è la festa della Madonna del Rosario, istituita nel 1572 da papa Pio V con il nome di s. Maria della Vittoria, poi modificato in Beata Vergine del Rosario due anni dopo dal successore Gregorio XIII. Pio V aveva inteso così ringraziare la Madonna per la grande vittoria del 7 ottobre 1571 nelle acque di Lepanto (Grecia occidentale), in cui la flotta cristiana della Lega Santa, condotta da don Giovanni d’Austria (coadiuvato da Marcantonio Colonna), sbaragliò la flotta musulmana agli ordini di Alì Pascià. I veneziani conquistarono il prezioso stendardo degli sconfitti (un vessillo verde su cui era stato scritto per 28900 volte il nome di Allah a caratteri d’oro), issato sull’ammiraglia di Alì Pascià; tale stendardo fu poi restituito ai turchi da Paolo VI il 19 gennaio 1967. Invece lo stendardo benedetto prima della partenza da Pio V (raffigurante, su fondo rosso, il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces) si trova a Gaeta, presso il locale museo diocesano.

    Ancora a tale proposito è bello poter segnalare che oggi i confini della Polonia hanno vissuto una grande giornata mariana grazie all’iniziativa della fondazione laica “Solo Dio basta” di invitare i fedeli a recitare il Rosario. L’iniziativa, appoggiata pienamente dalla Conferenza episcopale polacca (un atto che va lodato e segnalato alla Chiesa universale, quella italiana compresa), è stata pensata certo per proteggere la Polonia, l’Europa e il mondo nel giorno della Madonna del Rosario e a pochi giorni dal centenario dell’ultima apparizione di Fatima, ma anche per “aprire il cuore dei cittadini alla grazia di Dio” in tempi di gravi tensioni internazionali.

    Ci piace allora proprio oggi riferire su un’iniziativa recente e in pieno sviluppo cui contribuisce la Fondazione internazionale di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS) ”, fondata dal monaco olandese Werenfried van Straaten nel 1947, dapprima per aiutare i milioni di tedeschi sfollati dall’Europa orientale, poi la ‘Chiesa del Silenzio’ nei Paesi comunisti, infine chi soffre anche negli altri continenti. Ci si ricorderà che van Straaten, deceduto nel 2003 e definito da Giovanni Paolo II un “insigne apostolo della carità” era soprannominato “padre Lardo”, un appellativo che si era guadagnato nei primi anni di attività, considerato come raccogliesse per i profughi tedeschi non solo viveri, scarpe, vestiti ma anche tanto lardo. Oggi “Aiuto alla Chiesa che soffre” internazionale è presieduta dal cardinale Mauro Piacenza (a livello italiano da Alfredo Mantovano) ed ha sedi nazionali in 23 Paesi.  

    L’iniziativa è stata presentata giovedì 28 settembre presso l’Università lateranense con un convegno posto sotto il titolo “Iraq, ritorno alle radici”. In sintesi l’iniziativa prevede un aiuto molto consistente di ACS alla ricostruzione di circa 13mila case danneggiate o distrutte dall’Isis nella Piana di Ninive, così da riportare le famiglie cristiane nella propria abitazione. Il costo complessivo degli interventi è valutato in oltre 250 milioni di dollari. Le case totalmente distrutte risultano essere 1233, quelle incendiate 3520. Particolarmente grave la situazione a Batnaya (520 case distrutte, 105 incendiate), Tekekef (231 distrutte, 56 incendiate), Qaraqosh (115 distrutte, 2412 incendiate). Il Comitato per la ricostruzione di Ninive, istituito nello scorso febbraio comprende i rappresentanti delle tre confessioni cristiane locali: la caldea, la siro-cattolica e la siro-ortodossa.

    Quante più abitazioni verranno ricostruite, tanti più cristiani (125mila quelli fuggiti dalla Piana di Ninive) ritorneranno alle loro case. Almeno è quanto si spera. Da un primo sondaggio commissionato da ACS nel novembre 2016, solo poco più del 3% delle famiglie cristiane riparate a Erbil desiderava far ritorno al proprio villaggio. Tre mesi dopo – evolvendo positivamente la situazione militare nella regione - la percentuale era salita al 41%, con un 46% di famiglie possibiliste. A oggi sono già tornate diverse centinaia di famiglie. Tuttavia, dopo le tensioni create tra curdi e iracheni dal recente referendum in Kurdistan (per la creazione di uno Stato curdo autonomo), i cristiani sono di nuovo preda dell’incertezza e di un timore diffuso: quello che la Piana di Ninive (controllata per metà dai curdi e per metà dagli iracheni) divenga di nuovo teatro di guerra. Perciò la tendenza prevalente nelle migliaia di famiglie cristiane rimaste a Erbil (capoluogo del Kurdistan iracheno) è di attendere lo sviluppo degli eventi prima di rientrare.

    Tra i presenti al convegno della Lateranense i rappresentanti religiosi caldei, siro-cattolici e siro-ortodossi - capeggiati dal patriarca caldeo Louis Raphael I Sako – che hanno riferito con parole di verità della situazione in Iraq (specie nella Piana di Ninive) ed evidenziato i problemi esistenti. Per il patriarca Sako la gente, stanca di tanto sangue, è pronta alla ricostruzione e va incoraggiata anche a ristabilire i rapporti con i musulmani, come quelli dei villaggi attorno a Qarakosh. Sako ha insistito sulla necessità di un vero dialogo interreligioso, che è possibile, come mostra la sua esperienza in questi ultimi mesi.

    Aprendo il convegno, il cardinale Piacenza ha evidenziato che, “mentre la vecchia Europa si attarda a discettare su come nascondere la propria identità, ci sono luoghi dove essere cristiani può costare la vita”. Dobbiamo imparare molto dai cristiani del Medio Oriente, costretti ad abbandonare le loro case. Ad Aleppo erano 160mila prima della guerra, oggi sono ridotti a poco più di 30mila; nell’intera Siria sono passati da 1milione e 100mila a 400mila.

    Da parte sua il cardinale Parolin, evocata la “particolare preoccupazione” con cui papa Francesco “ha seguito fin dall’inizio la drammatica vicenda di migliaia di famiglie che hanno dovuto abbandonare le proprie città e villaggi a causa dell’invasione del cosiddetto Stato Islamico”, ha evidenziato che “la Santa Sede non cessa di rilevare che la presenza dei cristiani è fondamentale per un Medio Oriente pacifico, stabile, plurale, al quale essi hanno offerto il proprio contributo nel corso dei secoli”. Come ha affermato Benedetto XVI nell’Esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente”, “un Medio Oriente senza o con pochi cristiani non è più il Medio Oriente, giacché i cristiani partecipano con altri credenti all’identità particolare della regione”. Perciò la Santa Sede insiste, oltre che sul diritto al ritorno degli sfollati e dei rifugiati in condizioni di sicurezza, “soprattutto sull’importanza dell’applicazione del concetto di cittadinanza, che implica uguaglianza nei diritti e nei doveri”. Per quanto riguarda in particolare l’Iraq, il Segretario di Stato vaticano ha definito come “significativa” la “testimonianza di unità” ecumenica attorno al progetto di ricostruzione delle case nella Piana di Ninive: una testimonianza che “è resa ancora più necessaria e urgente dalla complessa situazione in cui versa il Paese e dal reale pericolo della scomparsa dei cristiani”. I quali, ha concluso il cardinale Parolin, “non vogliono essere una ‘minoranza protetta’ e benevolmente tollerata, ma cittadini i cui diritti sono difesi e garantiti assieme a tutti gli  altri cittadini”.

    Dei diversi fattori della crisi del Medio Oriente ha parlato l’arcivescovo Alberto Ortega Martin, nunzio apostolico in Giordania e Iraq dal 2015. Dopo aver ribadito che “centrale per la stabilizzazione dell’area sarebbe innanzitutto la soluzione del conflitto israelo-palestinese” (come è noto la Santa Sede “appoggia la soluzione dei due Stati per due popoli”), monsignor Ortega Martin ha rilevato che “dietro il conflitto siriano e altri nella regione non risulta difficile rintracciare un conflitto secolare tra sunniti e sciiti che non è soltanto religioso, ma nel quale è anche in gioco il potere dei Paesi dove questi gruppi musulmani sono maggioritari”. Venendo all’Iraq “il Paese da tempo soffre instabilità, in particolare dopo il caos prodottosi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003”. Papa Wojtyla “si adoperò molto per evitare allora la guerra, qualificata come avventura senza ritorno e aveva ragione”. Se da un punto di vista militare “la battaglia contro l’Isis in Iraq va abbastanza bene”, non ci si deve però accontentare di questo per il futuro dell’Iraq: “Si deve agire anche a livello politico, economico e soprattutto a livello educativo”. Il recente referendum in Kurdistan “ha provocato tensioni e polemiche” e l’ONU ha evidenziato “l’inopportunità di tale iniziativa in questo momento”. Durante la conferenza-stampa successiva, il nunzio ha ricordato anche l’importanza che i cristiani restino in Iraq, incarnando ognuno di loro una missione, quella di portarvi la presenza di Cristo.  

     

    A COLLOQUIO CON I RESPONSABILI UNGHERESI IMPEGNATI NELL’AIUTO AI CRISTIANI PERSEGUITATI

     

    Al Convegno erano presenti non a caso – oltre a numerosi ambasciatori presso la Santa Sede - anche due diplomatici venuti dall’Ungheria, Paese che (come i nostri lettori sanno) ha istituito l’anno scorso un vero e proprio Ufficio per l’aiuto ai cristiani perseguitati nel mondo. Del resto in conferenza-stampa e rispondendo a una nostra domanda, il patriarca Sako ha evidenziato come l’Ungheria abbia aiutato molto, “nei fatti e non a parole” i cristiani iracheni, donando loro tra l’altro quattro milioni di euro (due ai caldei, due ai siri ortodossi). A margine dell’incontro abbiamo colto l’occasione per una breve intervista al vice segretario di Stato per l’aiuto ai cristiani perseguitati, il responsabile dell’Ufficio Tristan Azbej e all’inviato speciale per il programma Hungary Helps, ambasciatore Peter Heltai.

    Signor vice segretario di Stato Tristan Azbej,  Lei è da qualche settimana il nuovo responsabile dell’Ufficio del governo ungherese per l’aiuto ai cristiani nel mondo. Può ricordare a chi ci legge quali sono i motivi che hanno spinto l’esecutivo nazionale a istituzionalizzare tale servizio?

    Prima di tutto l’Ungheria è orgogliosa di avere un’eredità cristiana, delle radici cristiane, e lo vuole mostrare pubblicamente. E’ un fatto ed è stato inserito anche nella nuova Costituzione ungherese del 2011. Noi crediamo che si debba mettere in pratica la solidarietà cristiana e cerchiamo di farlo.

    L’altra ragione è più pragmatica: in questi ultimi anni ci siamo dovuti confrontare  con il fenomeno delle migrazioni di massa originate dalla situazione mediorientale. Il governo ungherese ha una posizione molto chiara riguardo a questo fenomeno: non bisogna incoraggiare una così grande quantità di persone a venire in Europa, con le tensioni che inevitabilmente ciò comporta. Invece occorre portare l’aiuto là dove c’è il vero bisogno. Per concretizzare ciò occorre anche partecipare agli sforzi della comunità internazionale per la risoluzione dei problemi del M.O; e dare inoltre più visibilità alla voce di quelle persone, che sono meno presenti nell’opinione pubblica mondiale.

    Il patriarca Sako in conferenza-stampa ha detto che l’aiuto dell’Ungheria è un fatto, non sono parole e ha citato i 4 milioni di euro di aiuti giunti per metà ai caldei iracheni e per l’altra metà ai siro-ortodossi…

    Abbiamo tre strumenti principali per aiutare i cristiani perseguitati. Uno di questi è l’aiuto materiale pratico, da quello umanitario ai sussidi per le infrastrutture, ai fondi per educazione e sanità. Un altro strumento è quello di quello di amplificare la voce di chi non riesce a farsi sentire dalla comunità mondiale. Noi cerchiamo di rappresentare la loro causa davanti all’opinione pubblica e nelle sedi internazionali come l’ONU e la Corte internazionale penale dell’Aja. Il terzo strumento è il più apprezzato dai nostri fratelli in Medio Oriente: è l’appoggio morale. Per loro conta moltissimo sapere di non essere soli, ma di essere sostenuti nel mondo da chi li pensa e opera in loro aiuto.

    Quali sono i rapporti con la Santa Sede?

    Molto buoni. Siamo tutti coscienti che la cristianofobia è ancora spesso un soggetto tabù a livello internazionale. Recentemente il nostro vice ministro ha incontrato l’arcivescovo Gallagher in Vaticano, riferendogli di quanto fatto fin qui per opera del Governo ungherese e in particolare dell’Ufficio per i cristiani perseguitati. Il segretario per i rapporti con gli Stati ci ha incoraggiato a proseguire su questa strada che abbiamo incominciato a percorrere.

    Signor ambasciatore Peter Heltai, qual è il Suo compito nell’ambito dell’aiuto ai cristiani perseguitati?

    Sono un ambasciatore dipendente dal Ministero degli esteri, ma lavoro attualmente presso il Ministero delle Risorse umane, considerato come il mio compito sia oggi principalmente quello di sostenere l’attività dell’Ufficio per i cristiani perseguitati. Fungo da inviato speciale nel mondo nell’ambito del programma Hungary Helps, che comprende tutto quanto il Governo ungherese fa come aiuti umanitari, cooperazione allo sviluppo, borse di studio e, appunto, aiuto ai cristiani perseguitati. Ho il compito di comunicare al mondo il volto solidale dell’Ungheria, un volto che è ignorato da tutta una narrativa ostile che non ci dà atto di una realtà che è ben viva. E apporto il mio contributo alla causa dei cristiani perseguitati, cercando di dare loro la massima visibilità internazionale possibile.

     

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