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    IL CARD. RUINI HA OTTANT'ANNI

    ROSSOPORPORA DI FEBBRAIO 2011 - 'IL CONSULENTE RE ONLINE' 

     

    Il 19 febbraio 2011 l'ottantesimo di un protagonista della vita sociale italiana degli ultimi vent'anni, il cardinale Camillo Ruini. Il patriarca Naguib e la 'primavera' egiziana. Il card. Tauran sul dialogo con l''IslamIl card. Sarr al Forum sociale mondiale. Il card. Urosa Savino e l'intolleranza anti-cristiana. Il card. Biffi e il Risorgimento. Il card. Tettamanzi sulla politica italiana. Il card. Ravasi e la criminalità. Il card. Kasper sul manifesto 'Kirche 2011'

     

    Il 19 febbraio ha festeggiato gli ottant’anni uno tra i cardinali più conosciuti, apprezzato da molti per il suo servizio alla Chiesa e alla Nazione, inviso a non pochi per lo stesso motivo, in ogni caso rispettato e temuto dagli avversari: Camillo Ruini, per sedici anni (1991-2007) presidente della Conferenza episcopale italiana, ma anche cardinale vicario della diocesi di Roma, oggi ancora presidente del Progetto culturale e di una commissione vaticana importante come quella che indaga sul delicato caso di Medjugorje. Tra gli avvenimenti che l’hanno visto protagonista nazionale in positivo (almeno come ispiratore) il fallimento clamoroso dei referendum contro la legge 40 (2005, fecondazione artificiale), l’altrettanto clamoroso successo del Family Day a piazza san Giovanni (12 maggio 2006), una piazza San Pietro strapiena per testimoniare la vicinanza a papa Benedetto XVI, che aveva rinunciato “a malincuore” a parlare all’Università La Sapienza di Roma per evitare possibili incidenti (20 gennaio 2008). Avvenire – sempre molto valorizzato dal cardinale emiliano - non poteva non rendergli omaggio il giorno del suo compleanno con l’intera pagina 3 in cui campeggiava un’ampia intervista dal titolo: La mia fede, rispettosa ma ferma nella verità. Tra le considerazioni del porporato nato a Sassuolo una riguardante Giovanni Paolo II, “un uomo che sembrava vivere sempre al cospetto di Dio; nel pregare come nel fare Dio c’entrava sempre per lui, non era mai estraneo alla realtà”. Continua il cardinale Ruini, sempre sullo stesso argomento: “Mi colpiva la passione con cui stava ad ascoltare chi aveva davanti, nel desiderio di capire; e quanto poco invece amava ascoltarsi e compiacersi di sé. Mi sbalordiva la sua sollecitudine pastorale, l’attenzione alle parrocchie di Roma e a ogni uomo. Come quando, già malato, lo vidi salutare tutti, uno per uno, 600 malati dell’Unitalsi”.

    Sullo stato della fede in Italia ha annotato il presidente del Progetto culturale: “La situazione non è facile, benché sia migliore che nel resto dell’Occidente. Confrontandoci con il Nord dell’Europa, credo sia stata giusta la scelta di reagire con energia alla secolarizzazione e di mantenere salda la tradizione. C’è in Italia uno zoccolo duro della fede che permane; il problema è la trasmissione della fede ai giovani. E’ questa la grande sfida”. Richiesto di un commento ai giorni convulsi sul piano politico che l’Italia vive in questi mesi, ha risposto il cardinale Ruini: “L’Italia ha prima di tutto una vocazione (…), quella di mantenere vivo, per l’intera Europa, il patrimonio di fede e di cultura innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo. Poi ci sono le difficoltà contingenti, politiche ed economiche, che ben conosciamo. Credo siano difficoltà superabili se si evitano le crisi istituzionali; e se ogni istituzione ha rispetto delle altre istituzioni”. Per quanto riguarda l’economia, il porporato ha invitato a non dimenticare “la sostanziale solidità mantenuta dal Paese in questo difficile periodo, solidità che fa sperare per il futuro” e a non ignorare che “conseguenza inevitabile della globalizzazione è la ridistribuzione delle risorse con quello che era il Terzo Mondo, cosa che non lascerà intatti i nostri tenori di vita occidentali”. Complessivamente il presidente emerito della Cei è però “ottimista per l’Italia”; certo “se smettessimo di autoflagellarci e autocommiserarci potremmo guardare realisticamente ai problemi, per risolverli”.  

     

    In un’intervista a L’Osservatore Romano del 29 gennaio il cardinale Jean-Louis Tauran  riflette  sullo stato del dialogo cristiano-islamico. Il sessantottenne porporato francese, riferendosi dapprima alla decisione del Consiglio dell’Accademie delle ricerche islamiche di Al Azhar  di ‘congelare’ i rapporti instaurati con Roma, ritiene che ci sia stato un malinteso. Consiglia dunque “una lettura attenta delle parole di Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata della pace 2011, nonché del suo discorso al Corpo diplomatico del 10 gennaio”, dato che “da questi due testi si capisce bene che il Papa si rifà ai valori universali e perciò, nel parlare del rispetto effettivo dei diritti e delle libertà della persona umana, egli non commette alcuna ingerenza (NdR: come rimproverato da Al Azhar)  in questioni che non sono di sua competenza”.

    C’è anche chi sostiene che il Papa non ami l’islam.  “Niente di più falso - risponde qui il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Ed evoca diversi momenti in cui Benedetto XVI ha espresso stima e rispetto per i musulmani: a partire dalle parole rivolte il 25 aprile 2005 ai rappresentanti delle religioni non cristiane poco dopo l’elezione a Papa, continuando con la visita del 30 novembre 2007 alla Moschea blu di Istanbul e del 12 maggio 2009 alla Cupola della Roccia nel piazzale delle Moschee di Gerusalemme. Ancora, rileva il cardinale, “si potrebbe anche ricordare la riunione del novembre 2008 qui a Roma con i firmatari della famosa Lettera delle 138 personalità musulmane ai capi religiosi cristiani”. In sintesi, conclude, “non ho mai trovato nelle parole di Benedetto XVI il minimo disprezzo per l’islam”. In effetti bisogna ricordare “che a dialogare non sono le religioni, ma i credenti, che sono un misto di bene e di male. Non sono le religioni ad essere violente, semmai i loro seguaci”.

    Il nome del patriarca copto cattolico Antonios Naguib, creato cardinale nello scorso novembre dopo essere stato relatore generale del Sinodo di ottobre sul Medio Oriente, è risuonato anche in queste ultime settimane caratterizzate dalla rivolta egiziana che ha portato alla caduta di Mubarak (vedi anche in questo numero l’intervista al politologo libanese Roger Bou Chahine). Un avvenimento che, in una nota riportata dall’agenzia Zenit del 14 febbraio, il presule settantaseienne ha commentato molto favorevolmente: “La Chiesa cattolica egiziana si unisce a tutti i leali cittadini dell’Egitto nel ringraziare Dio Onnipotente per il meraviglioso successo che ha concesso ai coraggiosi giovani del Movimento 25 gennaio”. E’ vero che ci si attendeva “un cambiamento graduale in base alle disposizioni costituzionali, ma la volontà dei giovani e della gente ha determinato il corso degli eventi”. Per il futuro, scrive il patriarca, “siamo sicuri che tutte le aspettative saranno soddisfatte, a Dio piacendo”; del resto “l’Egitto scrive la sua storia da 7000 anni con lettere di luce e di fuoco, e ora sta brillando con nuovo splendore”. Significativa l’affermazione successiva: quanto è accaduto “ha prodotto una realtà che è stata a lungo assente, ovvero l’unità dei cittadini, giovani e anziani, cristiani e musulmani, senza alcuna distinzione o discriminazione”. Essi hanno lottato “per il bene dell’Egitto e la sicurezza del Paese”. Si tratta ora di “operare seriamente, con impegno e decisione perché l’Egitto sia all’avanguardia a livello sociale, economico e politico”. Il patriarca “con tutti gli egiziani” chiede “passi rapidi che mettano in atto ciò che è stato dichiarato dal Consiglio supremo delle Forze Armate, ossia la ricostruzione della Nazione su basi costituzionali giuste”. In conclusione “Dio difenda l’Egitto e i suoi governanti, e possa ispirarli per il bene del Paese per il presente e il futuro”.

    Due giorni dopo, in dichiarazioni rilasciate all’ Aiuto alla Chiesa che soffre, il cardinale Naguib ha confessato che “per lungo tempo il realizzarsi di un governo civile, democratico, è stata la nostra speranza, un sogno”. Certo “i problemi sociali in Egitto sono così tanti e così grandi che non possono essere risolti in un attimo, ci vorrà del tempo” perché “il Paese non dispone di una ricchezza tale da consentire un miglioramento immediato del tenore di vita”. Richiesto di un commento sulla possibilità di un accrescersi del potere dei ‘Fratelli musulmani’, il patriarca ha così risposto: “Se i ‘Fratelli musulmani’ entrassero nel quadro di una società civile come un partito con un programma molto chiaro, sarebbero i benvenuti, come qualsiasi altro partito politico”. Però “se il loro intento è quello di trasformare l’Egitto in un Paese in cui venga applicata la legge della sharia, allora penso che non solo i  cristiani, ma più di metà della popolazione non lo accetterebbe”.

    Il 6 febbraio a Dakar ha incominciati i suoi lavori il Forum sociale mondiale. Aderendo all’invito dei suoi sacerdoti il cardinale Théodor Adrien Sarr ha presieduto la messa d’apertura, celebrata non in cattedrale ma in una parrocchia popolare della capitale, quella dei martiri ugandesi. Nell’omelia il porporato senegalese ha commentato il noto brano evangelico sui cristiani luce e sale del mondo. Per quanto riguarda la luce, ha osservato il settantaquattrenne presule, come riportato dal sito della Caritas locale: “Noi dobbiamo sentirci coinvolti dalla sorte dei nostri simili, al punto da cercare le cause delle loro sofferenze, così da denunciare e combattere le ingiustizie e le situazioni d’ingiustizia: allora noi saremo luce nelle tenebre del malgoverno, delle iniquità dei sistemi economici nazionali e mondiali”. Lo faremo opponendo alle nequizie “il programma del discorso della Montagna”, dandone testimonianza, come richiesto anche dai partecipanti al secondo Sinodo per l’Africa dell’ottobre 2009.

    I cristiani devono essere anche sale della terra. Perché se adottano, senza criterio, le mentalità e i comportamenti correnti, i conformismi culturali e sociali, non sono pervasi dal sapore del Vangelo o lo perdono”. I cristiani devono invece testimoniare, “rifiutando di condividere le corruzioni di un mondo viziato dalla brama di denaro e di potere”. Il cardinale Sarr ha poi richiamato i sommovimenti in corso nel mondo arabo: “Come tacere delle rivolte popolari contro coloro che confiscano il potere per sé, per le loro famiglie e i loro amici, come in Tunisia, in Egitto e senza dubbio presto in altri Paesi? Dobbiamo essere sale della terra, rifiutando ogni forma di corruzione del potere, per vivere e promuovere l’autorità come servizio, il potere come servizio, il potere per gli altri e non per se stessi”. Perciò “se il sale brucia come il fuoco, siamo sale, bruciando tutto ciò che in noi e attorno a noi non è degno dell’uomo! E se il sale fonde il ghiaccio, siamo sale, facendo fondere i cuori induriti dall’aggressività, dalla violenza, dal terrorismo, dal desiderio di vendetta!”.

    IL 23 gennaio il cardinale Jorge Liberato Urosa Savino ha presieduto una santa messa per l’unità dei cristiani nel monastero maronita di san Charbel a Caracas. Per l’occasione il sessantottenne arcivescovo ha ricordato – come riferisce l’agenzia cattolica latino-americana ACI Prensa – i martiri cristiani nei Paesi islamici e in India. Commemorando i cristiani copti assassinati il 31 dicembre in una chiesa di Alessandria d’Egitto, il presule venezuelano ha detto che l’attentato “mostra dove possono arrivare il fondamentalismo e l’intolleranza radicale di gruppi estremi che non rappresentano la corrente maggioritaria dell’islam”. Proseguendo, il cardinale Urosa Savino ha affermato che anche in Occidente “ i cristiani sono oggetto di forti pressioni da parte di correnti come il secolarismo, che rifiutano ogni religione e chiedono di mettere il silenziatore alla Chiesa così che non difenda il matrimonio tra uomo e donna e la vita umana in tutte le sue tappe”. Riferisce qui Radio Vaticana (citando una nota inviata all’agenzia Fides) che il porporato ha aggiunto: “Quando le Chiese parlano contro l’aborto e a difesa della vita, quando parlano della famiglia e del matrimonio, c’è chi si sente offeso in modo particolare”.  Solo con la forza dataci da Dio, ha concluso il cardinale, “noi cristiani potremo resistere agli assalti dell’intolleranza antireligiosa e anticristiana e a quelli, soavi e insidiosi, di un secolarismo che mira a fiaccare le persone nella loro pratica religiosa”. Del presule venezuelano ci siamo occupati più volte l’anno scorso in questa ur, Garibaldi e Mazzini erano indicatistessa rubrica, considerati i violentissimi attacchi verbali a lui portati dal presidente-caudillo Hugo Chavez.   

    Quest’anno l’Italia festeggia il centocinquantesimo della sua unificazione politica (che fu perfezionata qualche anno dopo con l’acquisizione del Veneto dopo la guerra del 1866, la presa di Roma nel 1870, il ‘ricongiungimento’ di Trento e Trieste dopo la Prima Guerra mondiale). Sul valore della ricorrenza e anche sull’opportunità di festeggiarla ufficialmente il 17 marzo si è aperto un ampio dibattito a più voci (discordi), cui ha partecipato anche il cardinale Giacomo Biffi tramite il suo ultimo libro intitolato L’unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861-2011. Contributo di un italiano cardinale a una rievocazione multiforme e problematica (editore Cantagalli, Siena). L’arcivescovo emerito di Bologna, chiaro e pungente come di consueto, rileva che “si è fatto ben poco per attenuare l’impressione che la così detta rivoluzione italiana (la parola è del Manzoni) fosse piuttosto nella sostanza un procedimento di annessione”. E’ vero che “il pluralismo statuale comportava inconvenienti anche gravi, e andava per forza di cose superato”. Tuttavia tale pluralismo “non era un fenomeno del tutto negativo: corrispondeva a un certo genio del nostro popolo e aveva dato, come ammirevole risultato, il fascino impareggiabile di molte città italiane vestite a festa come si conviene alle capitali”. Purtroppo di questo – osserva il presule milanese – “non si tenne conto alcuno” e “a una integrazione rispettosa delle particolari ricchezze si preferì la via sbrigativa di una imposizione livellatrice”. Ad esempio – afferma il cardinale Biffi, accennando a una questione molto controversa -  “è stato un dramma politico e sociale la fusione precipitosa di due realtà così lontane e disparate come l’area lombardo-piemontese e l’area meridionale”.

    Continua l’ottantaduenne porporato, puntando all’argomento che più gli sta a cuore: “Una volta conclusa l’azione unificatrice, con molta accortezza si è elaborato e imposto una specie di catechismo risorgimentale edulcorato, nel quale Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini erano indicati alla venerazione degli italiani come gli autori della mirabile impresa”. In realtà, annota sarcastico il presule, “la sola cosa che accomunava questi padri del Risorgimento è che nessuno di loro poteva soffrire gli altri tre”. L’errore più grave del movimento risorgimentale è stato quello “di aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consustanzialità con l’identità nazionale”. Il cardinale Biffi stronca qui due luoghi comuni riguardo all’inimicizia tra il nuovo Regno d’Italia e la Chiesa.

    Il primo: l’inimicizia va addebitata al potere temporale dei Papi. Concede l’autore che “questa persuasione ha certamente qualche fondamento” e tuttavia osserva che “il nocciolo del problema non stava qui”. Perché “il conflitto incomincia –tra le prime due guerre d’indipendenza – con le leggi eversive del Regno Sardo, dove non c’era ombra di potere temporale”. Proseguendo poi “con l’estensione di quelle leggi all’Italia intera (1866-67) e con le continue interferenze statali nella vita della Chiesa”. Insomma “la ragione primaria della tensione non stava nel principato terreno del Vescovo di Roma (che, a scanso di equivoci, il porporato definisce ‘ingombrante eredità della storia, che è stato provvidenziale aver superato’) ma nella volontà di attentare alla libertas Ecclesiae”.

    Secondo luogo comune: “I guai d’Italia e le sue arretratezze derivano dalla Controriforma”. Se la si pensa in tal modo, “è naturale – rileva il cardinale Biffi – che si siano enfatizzati il riscatto e la risurrezione apportati dal movimento risorgimentale”. Invece la realtà “è ben diversa”, affonda il porporato: “Caso mai si può dire che sfortuna d’Italia è stata che la Controriforma non è riuscita a raggiungere e a trasformare l’intera penisola”. Perché, “dove ha agito in profondità – per esempio con la Riforma borromaica (e cioè nel Nord, fino all’Emilia) – la gente è stata davvero educata a superare le antiche propensioni alla furbizia, alla violenza privata, alla passività, al clientelismo, e si è trovata pronta a entrare nella moderna società europea”. Un’affermazione questa che, come altre, non susciterà l’unanimità dei consensi: ma nessuno potrà negare l’indipendenza di giudizio dell’autore, che stimola a una riflessione alta in un’Italia ormai da troppo tempo contrassegnata dall’affabulazione terre à terre.

    A proposito di terre à terre: in un’ampia intervista al Corriere della Sera del 13 febbraio il cardinale Dionigi Tettamanzi si esprime anche sull’attuale momento politico, sociale e culturale italiano. “Quello che leggiamo da troppi mesi nelle cronache politiche nazionali non rispecchia certo i veri problemi del Paese – rileva l’arcivescovo di Milano – Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano”. Tanti poi gli esempi negativi che vengono dall’alto: “Il dovere dell’esemplarità non riguarda solo i politici, bensì tutte le persone che hanno incarichi pubblici, che sono chiamate a guidare il Paese, a essere un riferimento per le persone, che rappresentano la nazione all’interno e all’esterno”. Perché “gli uomini che governano le istituzioni sono il volto delle istituzioni” e “la sobrietà deve allora essere una nota di stile caratteristica e visibile, deve emergere dal tipo di linguaggio che si usa, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nello stile di vita”. E’ giusto che i cittadini si attendano da chi li rappresenta “la correttezza di comportamento, l’esemplarità nel pubblico e nel privato”. In sintesi, riassume il settantasettenne porporato, “condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse”.

    Come deve agire la Chiesa quando l’esemplarità latita? “Compito della Chiesa in ambito sociale – rileva qui il cardinale Tettamanzi – non è stigmatizzare o approvare, bocciare o promuovere”. La Chiesa non deve darsi al “protagonismo da soggetto partitico, bensì richiamare, incoraggiare, sostenere gli uomini politici e delle istituzioni a occuparsi del bene comune, a essere veri uomini di Stato”. L’arcivescovo di Milano è spesso stato al centro di polemiche politiche per quelle che sono state ritenute da alcuni ‘aperture’ inaccettabili soprattutto negli ambiti del dialogo interreligioso e della politica verso i rom. Famiglia Cristiana lo ha invece scelto come ‘italiano dell’anno’ proprio per il suo impegno nel sociale. Osserva qui e conclude l’intervista il diretto interessato: “Quando parlo dei bisognosi, degli ultimi, degli emarginati, di chi non ha una casa, di chi ha fame, non mi preoccupo di essere accusato o incensato. Un cristiano, un vescovo, deve seguire il Vangelo”. Perciò “l’unico criterio del mio agire è la fedeltà alla parola del Signore, il Vangelo. Anche quando fare ciò è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare”.

    Nella rubrica di Avvenire intitolata Mattutino, il cardinale Gianfranco Ravasi ha ripreso le sue brevi riflessioni sui fatti della vita. Prendendo spunto da un testo sulla camorra, scritto nel 1875 da Pasquale Villari e tratto dalle Lettere meridionali, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura scrive: “La forza dirompente del male è tale che, partendo dalla sua sorgente (l’oppressore), riesce progressivamente a inquinare il fiume in cui si immette (l’oppresso), ma anche il terreno circostante (lo spettatore). La rete delle connivenze s’allarga, il regime del ricatto o del terrore stende il suo sudario di ingiustizia, di violenza e persino di morte, l’atmosfera camorristica o mafiosa ammorba le anime e rende tutta la società complice del male”. Osserva poi il presule milanese: “Detto questo, non possiamo tirarci fuori perché settentrionali o appartenenti ad altri ambiti”. E questo “non solo perché, come diceva un famoso scrittore e giornalista del Novecento, Ugo Ojetti, si è sempre meridionali di qualcuno”. In realtà “c’è anche un rischio più universale di inquinamento delle coscienze, un declassamento dei valori morali, un’acquiescenza diffusa alla corruzione”.

    In questo numero, nella rubrica Attualità, abbiamo volentieri dato la parola a don Willy Volonté per un commento al Memorandum per una svolta nella Chiesa tedesca, pubblicato nella  Süddeutsche Zeitung del 3 febbraio e sottoscritto da ormai oltre 250 teologi dell’area germanofona (Germania, Austria, Svizzera). L’11 febbraio nella Frankfurt Allgemeine Zeitung sono apparse le considerazioni al proposito del cardinale Walter Kasper, di cui qui riferiamo. Esordendo il settantottenne porporato riconosce come dato assodato che la Chiesa cattolica tedesca è in una grave crisi; nessuno può dunque contestare che i teologi in tale situazione assumano una responsabilità speciale e possano e anzi debbano far sentire la loro voce. Tuttavia, annota il presule, “da ex-docente per quasi trent’anni in Facoltà universitarie, devo dire apertamente che il Memorandum mi ha profondamente deluso”. Per un motivo soprattutto: “Mi sarei aspettato di più da dei teologi, un contributo di sostanza, di cui oggi abbiamo gran bisogno. Ma nel Memorandum non l’ho trovato”.

    Chiede il cardinale: “Credono seriamente i firmatari che le questioni riguardanti la struttura ecclesiale siano oggi quelle esistenziali dell’uomo? Oppure non è piuttosto che la crisi della Chiesa deriva dalla crisi della fede in Dio?”. Certo, continua, “i firmatari postulano a ragione un dialogo aperto. Ma ciò che essi nel Memorandum includono nel dialogo è da tempo ben conosciuto ed è già stato detto fin quasi allo sfinimento da diversi altri gruppi”.

    Per quanto riguarda i sacerdoti sposati, il sacerdozio femminile e il riconoscimento delle unioni omosessuali, ricorda il da poco presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, “sono tutte questioni che sono discusso vivacemente non solo nella Chiesa cattolica, ma nell’intero mondo ecumenico, in cui sono state anche largamente approvate”. Con sottile ironia aggiunge il cardinale Kasper: “Come è noto ho avuto negli ultimi dieci anni occasioni abbondanti di curiosare su tali questioni dentro altre chiese e di raccogliere esperienze in merito”. E’ per questo che mi chiedo: “Come può essere che alla comunità teologica tedesca sia palesemente sfuggito che le chiese che hanno accettato l’ordinazione delle donne e il riconoscimento delle unioni omosessuali sono – proprio a causa di ciò – in una crisi ancora più profonda della Chiesa cattolica in Germania? Queste chiese sono in parte al limite della scissione oppure già l’hanno sperimentata” (qui il cardinale Kasper pensa certo alle diatribe anglicane in materia). Segue un riferimento esplicito al protestantesimo tedesco: “Pur con tutto il rispetto e l’amicizia con le chiese evangeliche nel nostro Paese, che da tempo hanno soddisfatto tali postulati, ci si deve però chiedere se stiano meglio a proposito della domanda fondamentale sulla fede in Dio nel mondo”.

    La questione del celibato sacerdotale, ha poi rilevato il porporato, “considerata storicamente, per la prima volta non è più una patata bollente. E’ noto che insieme con altri teologi (NdR: tra cui Joseph Ratzinger) circa quarant’anni fa mi sono battuto perché fosse esaminata. Ciò che è invece meno noto è che tale esame ha avuto luogo”. E la questione è stata chiusa, “approfondita da non meno di tre Sinodi dei vescovi che hanno deciso a maggioranza schiacciante”. Perciò sarebbe realistico accettare il risultato dell’esame e rinunciare a “lamentazioni continue”. Naturalmente il celibato è sostenibile se poggia sulla fede in Dio e nel suo Regno: “In ogni altro caso bisognerebbe dare dei matti a coloro che vivono da celibi”. In conclusione “la crisi della fede in Dio ha portato non solo a quella del celibato, ma anche a quelli di credenti e comunità”. Infatti “se in Germania la media dei cattolici praticanti dal 1950 è scesa di più di due terzi, queste sono cifre che da tempo avrebbero dovuto scuoterci e denotano il motivo vero di ciò che si chiama crisi delle vocazioni”. Insomma dobbiamo occuparci urgentemente di sostanza teologica: “I teologi maschi e femmine sono perciò gentilmente invitati a offrirci un contributo di spessore”. E su questa nota ancora sottilmente ironica si chiude la riflessione del cardinale Kasper.

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